Nella cappella invernale stanno venendo alla luce alcuni affreschi. Mentre l'amministrazione comunale ufficializza la commissione consultiva sul Trecento riminese che porta allo scoperto un problema di cui ci siamo già occupati.
Il Trecento riminese si arricchisce di nuove perle? Per ora l’interrogativo non può che rimanere sospeso, ma ci sono segnali interessanti. Nella cappella invernale della chiesa sono stati condotti dei sondaggi e i tecnici da qualche giorno sono al lavoro. Stanno emergendo affreschi di cui fino ad oggi non si conosceva l’esistenza. In una delle due campate ogivali spuntano figure che stanno richiamando l’attenzione degli esperti. Impossibile al momento avventurarsi in qualunque ipotesi, tanto meno sulla mano che ha lasciato quegli affreschi, ma la chiesa di Sant’Agostino, che Antonio Paolucci ha definito “la Basilica di Santa Croce per Rimini”, continua a regalare nuovi tesori.
Il Trecento riminese, però su tutt’altro piano, continua invece a far discutere. Il 27 aprile la giunta comunale ha deliberato l’istituzione «di una commissione consultiva per la valorizzazione della scuola riminese del Trecento» che dovrà concludere i suoi lavori entro il 31 luglio prossimo. Oltre all’assessore alla cultura Giampiero Piscaglia, la compongono (tutti senza ricevere compensi) cinque competenze interne al Comune (Silvia Moni, Orietta Piolanti, Annamaria Bernucci, Serena Amati, Francesca Minak) e altrettanti esterni: Alessandro Giovanardi, Oreste Delucca, Johnny Farabegoli, Massimo Pulini e Luisa Tori.
Cosa significa «valorizzazione della scuola riminese del Trecento»? Dietro questa definizione abbastanza generica si tende a perseguire un obiettivo che invece è molto specifico. Spiega la delibera di giunta che «la Commissione dovrà focalizzare il suo lavoro sui seguenti argomenti: a) individuazione degli spazi del Museo della Città nei quali allestire la sezione da dedicare alla Scuola Riminese del Trecento, b) selezione delle opere e degli oggetti da esporre, c) modalità di articolazione e di fruizione del percorso museale, con riguardo alle soluzioni tecnologiche più adeguate».
Di questo organismo, spuntato dal nulla e all’improvviso, ma non per caso, diede notizia l’assessore Piscaglia nel corso della commissione cultura presieduta da Davide Frisoni. Si venne a sapere in quella sede che un componente autorevole che era stato chiamato a farne parte, il prof. Giulio Zavatta, aveva deciso di abbandonare la commissione consultiva. Piscaglia rivelò anche un altro importante tassello: nel dare il proprio benestare al trasferimento momentaneo del “Giudizio universale” nella sede espositiva del Part, la Diocesi ha preteso che non fossero esposte nella Sala dell’Arengo «opere d’arte contemporanea che siano in contrasto con la sacralità del soggetto religioso del timpano del Giudizio Universale di Giovanni da Rimini», e che il ritorno del Giudizio nel Museo dovesse avvenire a seguito di un progetto di «riorganizzazione/rigenererazione (secondo quanto anticipato dall’Assessore alla Cultura del Comune di Rimini) con particolare riferimento alla nuova articolazione della sezione dedicata al Trecento Riminese e, più in generale, a tutte quelle opere, in deposito attualmente presso il Museo della Città (circa sessanta) e di proprietà della Diocesi di Rimini, soggette ad eventuale dislocazione rispetto all’attuale sistemazione». Su questi obblighi la Diocesi ha preteso garanzie anche dai futuri amministratori in una formula inusuale che impegna la struttura comunale: «Il Comune di Rimini, attraverso i propri uffici, garantirà l’adempimento degli obblighi assunti con il presente accordo, anche in epoca successiva al rinnovo delle cariche elettive». L’operazione è suonata come una ingerenza.
Intervistammo il prof. Zavatta per farci spiegare le ragioni all’origine del suo abbandono della commissione consultiva, e ci disse che andavano lette proprio alla luce di questo “strano” accordo.
«Il documento, che anche io avevo trovato nell’albo pretorio, mi ha messo in difficoltà e ha contribuito alla mia decisione di non aderire. Sulle questioni curatoriali, ovvero sulle prescrizioni della Diocesi, non ho riserve: essendo proprietaria del bene può porre le sue condizioni. Condizioni tuttavia che dal punto di vista espositivo e museale sono un controsenso: mi sono chiesto quale significato possa avere il rischioso spostamento temporaneo di un affresco delicatissimo per isolarlo, con la prescrizione di non farla dialogare con le altre opere in mostra», chiarì il prof. Zavatta a Rimini 2.0. «Credo che la Diocesi stessa si aspettasse che le condizioni poste non fossero accettate, nessun curatore avrebbe potuto del resto acconsentire, ma un curatore nel senso proprio al PART sembra non esserci. Al di là di questo aspetto, che peraltro ho già sottolineato, dal mio punto di vista ci sono altri due problemi che ho discusso durante l’ultima riunione a cui ho partecipato e che mi hanno portato alla sofferta decisione. Il primo è che il prestito del Giudizio è stato concesso a una fondazione di diritto privato, in una mostra (o museo?) che ha dichiarati scopi di valorizzazione patrimoniale delle opere esposte. Non ho capito perché per un’operazione che va a tutto vantaggio del privato, il pubblico – cioè noi – si debba impegnare economicamente per soddisfare le condizioni della Diocesi, andando ad agire su una parte del museo, senza poter scegliere se intervenire su altre (per me più impellenti) necessità. Inoltre nell’ormai ben noto documento ho ravvisato, sempre secondo la mia interpretazione, il contravvenire a un punto preciso del regolamento del museo, che sancisce che l’istituzione, ovvero il direttore per essa, ha autonomia dal punto di vista scientifico e organizzativo. Nessun direttore – e anche qui manca questa figura – avrebbe potuto accettare una simile ingerenza, l’imposizione “esterna” di un riallestimento parziale. O, accettandola, ne avrebbe dovuto rispondere. Questa prescrizione peraltro crea un precedente per me potenzialmente pericoloso».
E le preoccupazioni del prof. Zavatta hanno trovato piena conferma nel momento in cui l’amministrazione comunale ha deciso di formalizzare la commissione consultiva con tanto di comunicato stampa che ha questo incipit: «Una iniziativa – prevista nell’ambito del progetto denominato “Completamento e Valorizzazione del Percorso Museale PART”, inserito dal MIBACT nel Piano strategico “Grandi progetti Beni Culturali” Annualità 2020 – per definire un percorso di valorizzazione della Scuola Riminese del Trecento all’interno del Museo della Città». Questo il commento che Giulio Zavatta ha postato sulla sua pagina Facebook: «Si formalizza quello che ho sottolineato nella mia lettera di non adesione: un intervento sul patrimonio pubblico del museo subordinato, rubricato come “completamento del PART”. Si mettono le mani sul museo, e solo su una parte in maniera impropria, come conseguenza di accordi presi con una entità di ragione privata (e con opere potenzialmente vendibili). Continuo a non condividere – e con ancor maggiore convinzione – la mortificazione della funzione istituzionale, pubblica e civica del museo e della sua stessa storia che nella commissione avrei dovuto rappresentare».
Anche sul versante culturale, insomma, il tanto «fare» dell’amministrazione uscente non equivale sempre a «ben fare». In istituzioni culturali prive di direttori, è la politica ad avere l’ultima parola, e così possono avvenire scelte come queste, nelle quali il vescovo sottoscrive col sindaco (uscente) un accordo che, fra l’altro, dovrà essere vincolante anche per il sindaco che verrà.
Rimini si candida a capitale della cultura ma le sue istituzioni culturali avrebbero bisogno di una migliore taratura.
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