Il caso del “Giudizio universale” e la governance culturale: intervista al prof. Giulio Zavatta

Il caso del “Giudizio universale” e la governance culturale: intervista al prof. Giulio Zavatta

«Essendo proprietaria del bene la Diocesi può porre le sue condizioni, che però dal punto di vista espositivo e museale sono un controsenso». E le prescrizioni poste creano un precedente potenzialmente pericoloso. Su «tutte le questioni più importanti dal punto di vista culturale, l’amministrazione ha avviato prima le procedure, poi eventualmente ha convocato (o si è proposta di convocare) un comitato scientifico». Castel Sismondo: «Il tanto vituperato ed effettivamente brutto parcheggio che assediava il castello, per paradosso, era più “leggero” e facilmente reversibile» dell'attuale sistemazione. Ma Zavatta spiega anche le ragioni che l'hanno fatto decidere, a malincuore, di abbandonare la commissione consultiva.

Cosa sta accadendo intorno al tema della cultura e dei musei a Rimini? Uno spettacolo poco edificante. Qualche giorno fa abbiamo riferito degli esiti della commissione cultura, presieduta da Davide Frisoni. Per un verso molto utile perché ormai l’amministrazione in carica ci ha abituati a tenere le carte coperte e a decidere tutto all’interno della giunta comunale, e dunque per conoscere qualcosa di più occorre attendere che una interrogazione o una commissione sollevi qualche velo che nasconde magari decisioni già prese anche all’insaputa del consiglio comunale. E’ emerso, ad esempio, il contenuto dell’accordo sottoscritto da sindaco e vescovo, che apre numerosi e rilevanti interrogativi. Ma per un altro verso l’assessore alla cultura Giampiero Piscaglia, pur mostrando un volto dialogante, non ha dato l’impressione di avere “incassato” e fatto tesoro delle critiche più significative che ormai da tempo vengono poste da più parti al modello di gestione della cultura (del sistema museale e dei beni culturali) espresso da palazzo Garampi. Nella stessa seduta l’assessore ha rivelato l’abbandono del prof. Giulio Zavatta dalla commissione consultiva, fornendo una sua versione della motivazione alla base della decisione. Erano tanti, insomma, gli stimoli che ci portavano a decidere di bussare (speriamo senza troppa insistenza) alla porta del prof. Zavatta per porgli alcune domande su questi temi di attualità, che intersecano anche le sue competenze, trattandosi di materie che come docente universitario maneggia con estremo rigore. Lo ringraziamo per avere accettato di rispondere, con chiarezza e puntualità.

Nell’ultima commissione cultura presieduta da Davide Frisoni, l’assessore Piscaglia ha parlato anche delle sue dimissioni dalla commissione consultiva di recente costituita, sostenendo che lei se ne è andato «quando abbiamo deciso di fermarci a discutere sul Trecento riminese, ritenendola una modalità non organica di affrontare l’argomento musei». Sono andate così le cose? Per quali ragioni è nata quella commissione e lei aveva inizialmente aderito? Cosa c’è alla base della sua decisione?
Quando è stato proposto ad altri studiosi e a me di entrare a far parte di una commissione per il Trecento in museo abbiamo risposto chiedendo di formare piuttosto una commissione per il museo nella sua interezza, mettendoci a disposizione. In particolare non si riteneva lineare intervenire su una sola parte del percorso (ma con evidenti ricadute su tutto il museo) in un contesto che necessiterebbe di un ripensamento generale. Un’idea unanimemente condivisa dagli altri membri. La natura del comitato, in conseguenza di vincoli già siglati, non poteva che essere sul Trecento e ne ho tratto le conseguenze. Personalmente, non sono un medievista e il mio contributo lo avrei potuto dare dal punto di vista più generale, forse, sul museo. Non ho dunque ravvisato le condizioni per dare un valido apporto considerando le mie competenze. Mi permetta quindi di dire che quanto emerso in commissione, che cioè io avrei particolari titoli, non è corretto, direi anzi il contrario nel caso specifico.

Cosa pensa dell’accordo sottoscritto dal sindaco e dal vescovo, che ha previsto fra l’altro l’assenso della Diocesi al trasferimento del Giudizio universale al PART a condizione che il timpano non venisse esposto insieme ad opere d’arte contemporanea che siano in contrasto con la sacralità del soggetto, e che il ritorno al Museo della Città di quella che rimane comunque un’opera “privata”, debba avvenire con un nuovo allestimento per ricollocarla in una posizione «che ne esalti finalmente l’importanza, dentro una sezione interamente dedicata al Trecento riminese».
Il documento, che anche io avevo trovato nell’albo pretorio, mi ha messo in difficoltà e ha contribuito alla mia decisione di non aderire. Sulle questioni curatoriali, ovvero sulle prescrizioni della Diocesi, non ho riserve: essendo proprietaria del bene può porre le sue condizioni. Condizioni tuttavia che dal punto di vista espositivo e museale sono un controsenso: mi sono chiesto quale significato possa avere il rischioso spostamento temporaneo di un affresco delicatissimo per isolarlo, con la prescrizione di non farla dialogare con le altre opere in mostra. Credo che la Diocesi stessa si aspettasse che le condizioni poste non fossero accettate, nessun curatore avrebbe potuto del resto acconsentire, ma un curatore nel senso proprio al PART sembra non esserci. Al di là di questo aspetto, che peraltro ho già sottolineato, dal mio punto di vista ci sono altri due problemi che ho discusso durante l’ultima riunione a cui ho partecipato e che mi hanno portato alla sofferta decisione. Il primo è che il prestito del Giudizio è stato concesso a una fondazione di diritto privato, in una mostra (o museo?) che ha dichiarati scopi di valorizzazione patrimoniale delle opere esposte. Non ho capito perché per un’operazione che va a tutto vantaggio del privato, il pubblico – cioè noi – si debba impegnare economicamente per soddisfare le condizioni della Diocesi, andando ad agire su una parte del museo, senza poter scegliere se intervenire su altre (per me più impellenti) necessità. Inoltre nell’ormai ben noto documento ho ravvisato, sempre secondo la mia interpretazione, il contravvenire a un punto preciso del regolamento del museo, che sancisce che l’istituzione, ovvero il direttore per essa, ha autonomia dal punto di vista scientifico e organizzativo. Nessun direttore – e anche qui manca questa figura – avrebbe potuto accettare una simile ingerenza, l’imposizione “esterna” di un riallestimento parziale. O, accettandola, ne avrebbe dovuto rispondere. Questa prescrizione peraltro crea un precedente per me potenzialmente pericoloso. Se la Diocesi per il prestito a privati di un bene in deposito in museo può pretendere per clausola il riallestimento di parte del museo stesso, lo potrebbero in teoria fare tutte le altre entità che hanno dipinti o altro in pinacoteca: la Fondazione CARIM, il museo delle Grazie, la confraternità di San Girolamo e chiunque altro abbia in deposito almeno un’opera. Pur comprendendo l’intento della Diocesi, che è assolutamente positivo, non ho trovato formalmente corretto procedere in questo modo, con un contratto vincolante che comprime l’autonomia statutaria del museo, peraltro in un momento di particolare debolezza mancando il direttore.

Quali potenzialità vede per il Trecento riminese nel panorama nazionale e internazionale e come potrebbe essere opportunamente valorizzato?
E’ chiaro che il Trecento Riminese è un grande patrimonio da valorizzare. Come ho anticipato, però, non sono un medievista e quindi non ho ritenuto di dover intervenire sullo specifico fuori dal quadro di un ripensamento generale del museo, sul quale forse potevo essere d’aiuto. E mi pare giusto dar seguito a questa decisione. I componenti della commissione per il Trecento, tutti studiosi molto valenti e appassionati della storia di Rimini, sapranno fare il meglio con le risorse che avranno a disposizione. E così anche tutti coloro che lavorano in assessorato, che pure hanno specifiche competenze e sono molto motivati. Come ho detto loro, la mia presenza, avendo le tante irrisolvibili perplessità sopra esposte, sarebbe stata più d’intralcio che di aiuto.

Un altro aspetto che è emerso dalla commissione cultura è quello della debolezza della «governance culturale», per utilizzare una espressione da lei usata qualche settimana fa. Il sistema museale e la biblioteca comunale sono prive di direttori ormai da lungo tempo. A molti la questione appare solo di tipo formale, ad altri molto sostanziale. Lei come la valuta?
Credo che sia una questione sostanziale proprio perché i direttori nella loro autonomia devono costituire la naturale controparte ai desiderata della politica, essere in grado di indirizzare le scelte dal punto di vista scientifico e organizzativo, e quando necessario dire no. Con la mia mancata partecipazione, per quel pochissimo che vale, ho voluto inserire nel dibattito la possibilità di un diniego, l’esistenza di un parere difforme, la speranza che si possa attuare in futuro una vera condivisione. Presa di posizione che naturalmente non ha alcuna implicazione personale con nessuno degli altri componenti, persone che stimo e dalle quali mi sono congedato con dispiacere.

Rimini capitale della cultura 2024. Non manca l’entusiasmo davanti a questa proposta, ma nemmeno i rischi. Qual è a suo parere il percorso corretto per andare nella direzione giusta ed evitare scelte superficiali destinate a non lasciare un segno duraturo?
Anche in questo caso ravvedo un problema più generale. Anzi è proprio questo il problema, a mio avviso. Tanto per la candidatura a capitale della cultura, quanto per quella all’Unesco, quanto anche al caso del Trecento in museo, o al PART e in pratica di tutte le questioni più importanti dal punto di vista culturale, l’amministrazione ha avviato prima le procedure, poi eventualmente ha convocato (o si è proposta di convocare) un comitato scientifico. Spesso con i bandi già assegnati o come nel caso del Trecento in museo con contratti vincolanti già siglati per il presente e anche per il futuro. Normalmente i comitati scientifici con parere consultivo, se si parla di progetti e non di ordinaria gestione, lavorano prima, non dopo. Chiedere di aderire a progetti ormai decisi e a bandi ormai assegnati vuol dire convocare un comitato di avvallo scientifico, ovvero chiedere a chi va bene di mettere la firma, mentre a chi non va bene non resta che la scelta di non aderire. Posizioni entrambe legittime secondo coscienza, ma questo modus operandi elimina ogni possibilità di discussione preventiva, l’unica che può far emergere e affrontare i problemi per tempo. E’ un peccato perché sono state fatte cose comunque importanti, ma molte si sarebbero potute far meglio. I numerosi contenziosi aperti ad ogni livello, dagli esposti in procura alle interrogazioni in parlamento, non sono purtroppo testimonianza di una buona concertazione su un patrimonio che è di tutti. Concertando, e magari anteponendo e non posponendo la discussione, queste controversie si sarebbero potute e dovute evitare.

In passato lei ha ripetuto molto chiaramente che il fossato è parte integrante del Castello e questo ha delle implicazioni concrete su quanto sta avvenendo anche relativamente al progetto di piazza Malatesta. Può spiegarci meglio il suo punto di vista? E dirci anche come considera l’opinione di chi ritiene che la vera, grande operazione culturale per la città sarebbe quella di valorizzare il Castello nella sua interezza, fossato compreso?
Sulla questione sono stati ormai versati fiumi di parole, anche in questo caso a decisioni ormai prese, quindi inutilmente. Personalmente sono molto colpito dal fatto che non siano stati fatti rispettare due vincoli ben precisi e ineludibili, che avrebbero naturalmente portato all’unica scelta filologicamente sensata, ovvero di riaprire dove possibile il fossato e mostrare nuovamente il castello nella sua possenza dopo due secoli. Una valorizzazione che avrebbe riguardato l’architettura della rocca, la sua vera essenza di monumento. Spiace che si sia riusciti a fare la cosa più difficile, spostare il mercato, e sia poi seguito un percorso unidirezionale con pochissimi, se non nulli, margini di discussione. Si è ripetuto spesso che la situazione è comunque migliorata, e alla vista è innegabile che lo sia. Ma a ben guardare è un abbellimento non risolutivo, anzi. Nella sostanza, alla fine dove c’era l’asfalto, rimovibile con qualche colpo di benna, ora c’è il cemento armato. Il tanto vituperato ed effettivamente brutto parcheggio che assediava il castello, per paradosso, era più “leggero” e facilmente reversibile.

Su Rimini 2.0 abbiamo recensito il suo volume Raffaello, la Madonna Diotallevi. La vicenda storico-critica. Considerato l’enorme interesse dei lettori su quanto pubblicato, viene da chiederle se nel frattempo abbia continuato gli studi sulla figura di Diotallevi davvero poco conosciuta a Rimini prima delle sue ricerche.
Gli studi stanno continuando e stanno riservando molte sorprese. Le mostre, indipendentemente dalla sfortunata contingenza in cui è caduta quella sulla Madonna Diotallevi, dovrebbero essere sempre occasione anche di studio e di approfondimento. E lo studio e l’approfondimento solitamente hanno una funzione emersiva, nel senso che fanno emergere nuove piste, o nuove segnalazioni, o altri studiosi che si stanno occupando di argomenti affini. Per ora non dico nulla per riservatezza, ma quello su Audiface Diotallevi e sulla sua Madonna di Raffaello non è un capitolo chiuso.

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