Abitata da conti e dai giovani senegalesi di don Zuclòn, la nobile dimora di Viserba continua il suo inesorabile declino. Ecco quel che resta.
Quando nasce, poco più di cent’anni fa, l’opulenta immagine di villa Gemmamaria si trova in blasonata solitudine. Leggermente sollevata rispetto al livello stradale, sorge su un terreno che i conti Spina vendono alla contessa romana Gemmamaria Carini. La posizione rialzata conferisce alla residenza estiva della nobildonna l’aspetto di maestosa considerazione di sé.
Il mondo abbiente, come pure il sangue nobile della società italiana dell’epoca, trova in Viserba, con le sue celebri fonti, una meta naturalmente congeniale. Quindi, permettono alle limpide acque viserbesi il condiscendente transito lungo le nobili e diafane gole d’italica aristocrazia (sic!). La cittadina di Viserba, nella “belle époque” è denominata a buon titolo “Regina delle Acque”. E’ un momento prodigioso e irripetibile per il borgo marinaro, fino ad allora una cenerentola della costa romagnola; assurge a celebrità turistica nazionale e internazionale a velocità fotonica. Nel tempo di un sospiro si popola di ville, villette e attività economiche.
Il merito va in modo particolare a un paio di persone che si rivelano fondamentali allo sviluppo della città, ma in verità tutti i viserbesi partecipano all’impresa. Viserba assume in breve i connotati distintivi di ambiziosa cittadina sulla cresta dell’onda (adriatica). In questo favorevole contesto i fasti di villa Carini si protraggono sereni fino agli anni Trenta. Poi viene ceduta e dopo una proprietà poco più che transitoria, viene acquistata da Giuseppe Cameo. La colpa capitale della famiglia Cameo è di essere di fede ebraica. Negli anni Quaranta, le leggi razziali italiane, più realiste del re perciò ben più dure di quelle tedesche, portano alla confisca della nobile magione che diventa proprietà dello Stato. Forse è da questo momento che viene ribattezzata “Villa Ombrosa”? Nel 1954 la meritoria e sudata acquisizione viene ceduta a tal don Pietro Lodolini (prete con molti quattrini, ohibò) che rime a parte, tra gli anni ’60 e i ’70 escogita di farne un ostello per la gioventù. Quale migliore destinazione per una dimora così prestigiosa? Lo stesso architetto che l’ha disegnata non avrebbe saputo immaginare destinazione d’uso più felice.
Le illuminate Giunte che si susseguono durante i turbinosi anni del “boato” economico, nulla eccepiscono, sicché il reverendo Pietro fraziona all’uopo gli interni della storica villa. “Oggi”, ci dice un vicino ben informato, “non permettono neppure che venga raddrizzato il muretto di cinta che sta per franare verso l’asfalto di via Sacramora”. Guai a spostare anche un solo mattone dell’obliato rudere, dunque. Il lesto sacerdote, dopo l’esaltante esperienza dell’ostello, si prodiga (siamo negli anni Ottanta) per ospitare i primi immigrati senegalesi nella dépendance della villa. Nessuno ha impedito all’imprenditore in abito talare di mulinar secchiello e cazzuola quando ha letteralmente stravolto i locali interni. E anche in seguito, nessuno si è opposto quando il prete ha organizzato un centro accoglienza ante litteram nella dépendance di villa Ombrosa. Potenza del clero. Il “don” è un precursore a tutto campo: finanziario, edilizio e dell’immigrazione. Le cronache riportano che l’intraprendente pastore ha un soprannome: don Zuclòn, che significa, a parere di esperti in idiomi dialettali, zoccolone (da zoccolo) o zuccone (da capoccione). Sia come sia, l’una o l’altra attribuzione, seppur a posteriori, ci trova d’accordo.
Intorno al ’95 don Zuclòn non può opporsi al risolutivo richiamo del Padre e lascia in eredità ai nuovi proprietari di villa Ombrosa un imprecisato numero di senegalesi residenti al civico 49 di via Sacramora.
I lodoliniani ospiti vengono fatti accomodare altrove, ma non senza fatica. Da quel momento, villa Ombrosa è finalmente liberata, ma subisce un costante, inesorabile declino. E declino è un benevolo eufemismo.
I colonnelli della terrazza anneriti, la facciata sbrecciata, i cornicioni sfondati, le imposte che penzolano, le vetrate infrante, gli alberi del parco parzialmente abbattuti urlano in faccia al passante la tristezza del luogo. Perfino la scalinata, la cui conformazione intrinseca interpreta l’invito a entrare, ora pare il misero simulacro di un sepolcro. Non vogliamo nemmeno immaginare come sia conciato l’interno della casa. E’ già un miracolo che sulla facciata non abbiano ancora defisso la formella tonda di maiolica smaltata.
Domanda alle competenti Autorità: perché le aperture e gli ingressi della villa non sono ancora state murate? Chiunque può andarci a bivaccare. Perfino Villa Manzi, ed è tutto dire, è stata finalmente tamponata.
Da quindici o vent’anni a questa parte, ciclicamente, i giornali locali e le associazioni culturali portano il caso Villa Ombrosa all’attenzione di cittadini e autorità. Di buone notizie, neanche parlarne. Buio pesto.
Nei confronti della bella residenza sono stati più clementi i bombardieri durante la seconda guerra mondiale piuttosto che la burocrazia e l’incuria degli anni successivi al conflitto. Non è un’iperbole. Ci sono prove documentali che lo suffragano.
A leggere le cronache dei viserbesi, negli anni si sono susseguiti proprietari e progetti senza concreto futuro. Troppo spesso gli annunciati decolli di lavori si sono poi risolti con disastrosi atterraggi di fortuna. Del resto viviamo in un paese perennemente avvolto su sé stesso. Quando non è preda di speculatori senza scrupoli è inchiodato da perniciosi burocratismi bizantini.
A Viserba c’è un’altra bella villa liberty ai cui proprietari sono stati negati interventi interni di ristrutturazione. I lavori prospettati non avrebbero affatto alterato i connotati della casa. Anzi, di sicuro avrebbero sanato un orrendo abuso edilizio. Ma questa è una storia che vi racconteremo prossimamente. Dosate la vostra indignazione e riservatene anche per la successiva puntata sulle ville della Regina delle Acque.
Questa rubrica nasce per porre l’attenzione sulle piccole e grandi brutture, gli sfregi al patrimonio ambientale, i molti edifici trascurati (talvolta totalmente abbandonati) della nostra città. Spesso si trovano in pieno centro o nella “vetrina” turistica di Rimini. Non è disfattismo, è amore per la città bella, perché solo accendendo i riflettori sulle brutture c’è la speranza che si possano sanare le “ferite” inferte sia per mano pubblica che privata. Allinearsi al ribasso, giustificare il brutto e arrendersi all’incuria e al degrado urbano, equivarrebbe ad una sconfitta. E se ha perso la città, per dirla con Niccolò Fabi, abbiamo perso un po’ tutti noi. Ci occuperemo anche del bello, di tutto quello che merita di essere segnalato. Coinvolgeremo molto volentieri quanti vorranno inviarci materiale fotografico interessante sull’argomento: redazione@riminiduepuntozero.it
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