Rimini capitale della cultura: quel messaggio sibillino del sindaco al Meeting

Rimini capitale della cultura: quel messaggio sibillino del sindaco al Meeting

«Sono certo che il Meeting sarà parte attiva del percorso di candidatura e oltre la candidatura, così come Rimini continuerà a essere amica del Meeting per il futuro». Cosa significa? Lo spunto per parlare di tanto altro. Turismo, Notte rosa, sindaci visionari, scivoloni professorali sulle ragioni che hanno impedito alla nostra città di finire sott'acqua in occasione dell'alluvione. E la capitale della cultura, che non può che essere un parto sussidiario.

«La storia del Meeting a Rimini è una storia d’amore e amicizia con la città che il tempo, invece che spegnere, ha consolidato». Parole e musica del sindaco di Rimini, Jamil Sadegholvaad, alla presentazione della edizione 2023, al teatro Galli, con il presidente della Fondazione Meeting Bernard Scholz e vari ospiti. Perché spegnere, poi? Ma comunque fin qui tutto normale. Il seguito invece ha fatto pensare a una “richiesta di aiuto” in vista di una scadenza che l’amministrazione comunale non vuole assolutamente “bucare” perché sarebbe uno smacco colossale e una eccezionale opportunità bruciata: «Se la nostra città, oggi, ha l’ambizione di avanzare la sua candidatura a Capitale Italiana della Cultura lo deve anche alle 44 edizioni del Meeting e alla relazione tra questa realtà e la comunità tutta. Ecco perché sono certo che il Meeting sarà parte attiva del percorso di candidatura e oltre la candidatura, così come Rimini continuerà a essere amica del Meeting per il futuro». Cosa significa «sarà parte attiva del percorso di candidatura» e quella sorta di do ut des che sembra filtrare dalle ultime battute?

La gestione della candidatura da parte dei soliti sapienti, con l’ausilio di qualche “tecnico”, conferma quel modus operandi centralista che si è visto all’opera nell’ultimo decennio: tutto in mano a pochi (ma pochi pochi) che pensano di poter decidere, fare e disfare, tutto tutto da soli. Non si sa bene in nome di quale scienza infusa. Però il sindaco una mano al Meeting sembra averla chiesta con quella formula sibillina pronunciata davanti ai capi della manifestazione di Cl. Forse perché il Meeting ha entrature, relazioni, “pesa”, insomma, sulla scena nazionale, e portare a casa il risultato di Rimini capitale della cultura non è una passeggiata e c’è bisogno di registi e “ambasciatori” qualificati. Speriamo che il Meeting si ricordi dove e come è nato e risponda “presente!”, ma allo stesso tempo possa lanciare un messaggio molto utile per la città ancor prima che per l’obiettivo (di “capitale”) da centrare: una candidatura si costruisce dal basso, dal popolo, dalla cultura che un territorio esprime, dalle singole competenze a quelle che le aggregazioni più strutturate manifestano, valorizzando tutti e senza dimenticare nessuno, in una logica – direbbero proprio al Meeting – sussidiaria, e non calata dall’alto, da vertici che si reputano illuminati e autosufficienti. E non pare sia stata nel segno della sussidiarietà la prassi pianificata nel palazzo in vista della candidatura.

Jamil Sadegholvaad si è addossato un fardello gravoso, che talvolta può togliere il sonno. Il suo ruolo lo sta interpretando con generosità e impegno. Succedere ad Andrea Gnassi era chiaro da subito che sarebbe stato complicato. Non però per la ragione che sbandierano i Gnassi-boy, cioè, in soldoni, dopo di lui il diluvio. Una tesi del genere si è sbirciata di recente anche sul giornale che ci dà il Buongiorno, chiara già dal titolo: “Rimini, probabilmente la fine di un’epoca”. L’epoca da rimpiangere sarebbe, appunto, quella di Gnassi (e di pochi altri, anch’essi individuati in modo del tutto errato nello stesso articolo). È certo che si tratta di una tesi senza fondamento e senza prove a supporto, e se si dovesse sottoporre a revisione (come accade per i contenuti scientifici prima della pubblicazione) quel testo non supererebbe l’esame. Si sostiene, infatti, che Andrea Gnassi «è stato uno degli ultimi visionari protagonisti della vita cittadina». Dove visionario viene caricato di un significato positivo, profetico (La Pira fu un visionario da questo punto di vista, ma Gnassi?). Potrebbe risultare utile leggere quel che significa visionario nell’immortale dizionario Treccani per, pur volendo partire da visionario, trarre qualche spunto utile. C’è anche un’altra tesi fuori baricentro contenuta in quella riflessione: «la Rimini di oggi è nata negli anni Ottanta». La Rimini di oggi è figlia, nella sostanza (salvo qualche “innesto” venuto dopo, che però non ha determinato innovazioni tali da modificare il corso della rendita), degli anni Sessanta. Non ha creato nulla di nuovo né tanto meno di visionario (in senso positivo) e vive ancora di quella rendita. Che è il vero dramma da fronteggiare. Dunque Gnassi è stato così bravo che sarà impossibile fare meglio e anche solo avvicinarsi ad un mayor di quella caratura? È semplicemente ridicolo. La gestione dell’ostica eredità di Gnassi consiste invece nell’impresa titanica di riuscire a fermare la giostra che lui ha fatto girare all’impazzata  spendendo una camionata di soldi senza la consapevolezza della realtà, senza una scala di priorità rispondenti alle esigenze profonde della città. E dunque senza benefici veri e durevoli per la collettività.

Tra le voci “stonate” che si sono ascoltate di recente c’è anche quella di un quotato professore dell’Alma Mater e riminese doc. Stefano Zamagni ha sostenuto (in un’intervista al quotidiano Avvenire) che «Rimini non si è allagata grazie al piano strategico». È grossa, e anche questa tesi avrebbe bisogno di passare al vaglio di una review.
Le parole, da matita rossa, sono le seguenti: «Lo sa che Rimini, attraversata da ben tre canali, non si è allagata? A Riccione, 10 chilometri a sud, l’alluvione. A Sant’Arcangelo, 9 chilometri a Nord, altra alluvione. Perché 12 anni fa la comunità di Rimini ha creato un forum di cittadini che gratis hanno lavorato per disegnare il futuro della città su diversi piani. Tra cui la messa in sicurezza dei corsi d’acqua. Un piano strategico presentato al consiglio comunale di Rimini dal vescovo Lambiasi. E fu approvato all’unanimità. Un canale è stato tombato, sono stati creati bacini di espansione, e quando è arrivata l’alluvione, Rimini non si è allagata. Bisogna rivitalizzare i circuiti delle comunità. A Rimini il ruolo della comunità cristiana è stato notevole».
L’argomentazione è temeraria e conoscendo il valore dell’economista verrebbe da pensare a un “suggerimento”, a una svista, a una semplificazione eccessiva di una argomentazione più strutturata. Ma al professore sarà sufficiente leggere Madre acqua di Oreste Delucca, presentato lo scorso marzo, per sapere che le cose stanno in maniera un po’ diversa.
Per farla breve: l’opera dirimente ai fini della messa in sicurezza del riminese è stata la realizzazione del deviatore Marecchia. Regnava il Duce, anni 1927-1938. Prima le fiumane allagavano Rimini, e l’avrebbero allagata ancora senza quell’opera. Poi arrivò il deviatore Ausa e del Mavone (1946), intervento che si completò con la tombinatura (1969). Scrive lo storico che in questo modo «entrambi i fiumi riminesi sono stati allontanati dal centro storico». Il Psbo, che secondo Zamagni avrebbe compiuto il miracolo, in realtà è un progetto di separazione della rete fognaria (acque bianche e nere), probabilmente un beneficio l’ha apportato al centro storico nei giorni dell’alluvione, ma minore. E sa il professore, che parla di forum di cittadini, che oggi la cittadinanza non sa nemmeno quali problemi stia cercando di risolvere la cosiddetta “manutenzione” alle condotte sottomarine antistanti piazzale Kennedy (parliamo dell’opera simbolo del Psbo), che è in corso da un anno e mezzo e che proseguirà dopo l’estate? Se di questo non è stato informato, lo facciamo volentieri noi.

Torniamo a bomba. Che la classe dirigente a Rimini sia in panne, e che il declino di un pensiero, di una storia, di un blasone anche, e pure della memoria (per non parlare della politica), siano evidenti, lo attestano molti fatti. Ma il dibattito sulla Notte rosa è la ciliegina sulla torta. Sono anni e anni che i limiti di questo “evento di sistema” appaiono chiari e alla luce del sole, ma cambiare è difficile, la creatività è più preziosa dell’oro e la normalità è la conservazione, non la rivoluzione. E come conserva la sinistra… nemmeno i parrucconi dell’ancien régime. Così si procede con la benda sugli occhi, portando in giro un cadavere. C’è chi lo sa bene che la creatura è stata un parto farlocco, mosso da un’esigenza giusta ma concretizzata attraverso una facile e frettolosa scorciatoia, mantenuta in vita solo grazie ai soldi pubblici e senza mai un bilancio (entrate-uscite: sì, perché di questo caotico bluff l’opinione pubblica non conosce nemmeno i costi, quanto si spenda per questo evento di sistema è un dato che non è stato mai reso noto). Ci sono città come Riccione, Ravenna, Milano Marittima che non hanno mai fatto alcun vero affidamento sulla Notte rosa, ben sapendo che per il turismo della riviera in termini di fatturato sono maggiori gli impatti negativi di quelli positivi. Ma a Rimini, dimora dell’altissimo «ideatore e organizzatore» della Notte rosa, si continua a far finta di niente. L’erede del predetto sindaco sostiene ancora oggi che chi «critica cerca alibi», anche se qualcosa scricchiola, tanto è vero che ha tenuto aperta la porta di un «ragionamento complessivo a fine stagione» per «cercare le nuove idee e le soluzioni per, eventualmente, migliorare tutta la nostra offerta complessiva». C’è un «eventualmente» di troppo.

Anche l’impero romano è andato in cenere, ma la classe dirigente pataca non si accontenta di aver vissuto di rendita per oltre mezzo secolo, no, pensa che il turismo a Rimini possa continuare a reggersi sulle chiacchiere, sulla eventite, sul nulla colorato di rosa, sugli interventi estemporanei e senza logica, senza programmazione, ‘ndo cojo cojo, senza nemmeno intuire dove stia il problema. Figurarsi se può esserci qualche speranza di risolverlo, il problema.
E siamo al patema di una Rimini senza turisti ma meditabonda sulla Notte rosa. L’edizione 2023, fluida più che mai, ha mostrato un encefalogramma quasi piatto, della sua iniziale forza propulsiva non è rimasto più nulla. Ormai nemmeno più il rosa. Gli “addobbi” si sono persi per strada, la cura dell’evento che si era vista nei primi tre o quattro anni ha lasciato il passo alla trascuratezza. Questa volta per cercare di rianimare la salma hanno provato a mettere in campo un talent scout. Ma cantare gioca jouer a chi sta steso sul lettino dell’obitorio è un tentativo disperato.
“Dopo il Covid nulla sarà come prima” ci hanno ripetuto e ci siamo ripetuti fino al rimbecillimento. Invece sì, è proprio tutto come prima, anzi peggio. E magari lo scenario fosco si limitasse alla Notte rosa! Nessuno in quest’ultimo decennio, quando era diventato evidentissimo che il turismo aveva ampiamente toccato il fondo, ha avuto il coraggio di dire che il fondo era stato raschiato, che non rimaneva più nulla, e che continuare nella pratica di autoconvincersi che tutto va bene poteva risultare solo un suicidio. Qualcuno per la verità che è andato controcorrente c’è stato, e che ha fornito un’analisi oggettiva dei mali e anche dei rimedi. Ma è stato tenuto ai margini.
Il “sistema” ha fatto quadrato per difendere l’indifendibile, per dire che il moribondo sprizzava vita ed energia da tutti i pori. Mentre gli alberghi chiudevano a raffica e rimanevano sulla prima linea ruderi desolanti. Mentre i sogni di gloria affidati alle colonie morivano. Mentre la qualità dell’offerta alberghiera e commerciale scemava. Mentre non un progetto di rinascita, uno, prendeva corpo. Perché il parco del mare (a proposito del sindaco visionario), cioè un arredo urbano che arriva trent’anni dopo rispetto agli arredi di altri Comuni, costato troppo, e che pur essendo già datato verrà portato a termine tra diversi anni, è stato immaginato senza parcheggi. Altroché visionario. Almeno questo avrebbe dovuto fare aprire gli occhi quanto meno alle categorie economiche e ai Gnassi-boy. Un progetto così strutturato non può fare curriculum ad un politico. Semmai costare un penalità seria, come quando nel gioco dell’oca si arriva alla casella 58, il temibile scheletro, e si è costretti a pagare la posta e ricominciare dalla casella di partenza. Invece lui è stato promosso a Roma. In questo sì visionario.

Il sindaco, oggi parlamentare, ci ha invornito con le parole, e come morso dalla tarantola si è messo a fare, a imporre, a spendere milioni, a stravolgere, senza nemmeno fornire le ragioni delle sue decisioni (Ecco, su questo punto la competenza del prof. Zamagni risulta impagabile: la “concezione deliberativa di democrazia” che tante volte ha richiamato, anche a Rimini, qui non ha proprio attecchito, nonostante la prosopopea del/sul piano strategico). Più potere ai sindaci? Ma anche no, visti i risultati. Quel sindaco ha ribaltato decisioni già ratificate dai suoi predecessori, scritte nelle tavole della legge urbanistica, sposate pure dal piano strategico, ponendo, di fatto definitivamente, una pietra sopra il recupero del fossato di Castel Sismondo, che se fosse stato riaperto avrebbe acceso su Rimini i riflettori della storia e dei viaggiatori internazionali attratti dalla cultura. E nonostante le voci più autorevoli della cultura e delle associazioni che si battono per la salvaguardia dei beni culturali, artistici e naturali, a Rimini e fuori Rimini, avessero segnalato l’errore e gridato alla manomissione dei beni culturali, lo scempio si è compiuto.
Sarebbe stato sufficiente il Fulgor come tempio felliniano, e questo avevano previsto i sindaci precedenti, invece la megalomania politica e tanto altro, hanno avuto il sopravvento.
Tutto il mondo verrà a Rimini a vedere il Museo Fellini, ci ha invornito l’ex sindaco, ma se quelle chiacchiere avessero avuto un costo (della serie: se il Museo Fellini non si reggerà in piedi economicamente, i soldi li andremo a chiedere all’ex sindaco), forse ne avremmo ascoltate di meno. Invece, il turismo danaroso (e anche no) va a vedere i beni culturali che non passano mai di moda, si mette in fila davanti alla Valle dei Templi, a Paestum, agli scavi di Pompei, al Colosseo, ai grandi musei… Le città d’arte fanno il pieno, scoppiano, “sono a rischio sostenibilità”, scrivono i giornali, altroché Notte rosa. Il nostro anfiteatro romano è ancora occupato da un asilo autorizzato come “temporaneo” nel primissimo dopoguerra e in piazza Malatesta ci hanno costruito la piscina. E la statua di Giulio Cesare vogliono nasconderla a chi ama la storia di Roma e arriva dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra e da tutto il mondo (arriva? Magari vorrebbe arrivare, avendo a disposizione un aeroporto) per ammirarla. Si chiama ignoranza, superficialità, provincialismo gretto, e quando tutto questo si colora di ideologia diventa una pandemia incurabile, perché non c’è ciclo vaccinale né mascherina che regga. Quando dilaga il virus della supponenza non c’è nessuna autorità di “salute pubblica” capace di fermarlo.

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