«Un Tempio per Pescheria»: l’opera, di fama europea, dell’architetto Buonamici

«Un Tempio per Pescheria»: l’opera, di fama europea, dell’architetto Buonamici

L'antica pescheria (1747) e la chiesa di San Bernardino (1759) sono i due edifici progettati da Gianfrancesco Buonamici a Rimini. In un incontro di studio condotto da Giovanni Rimondini per la sezione cittadina di Italia Nostra, lo scorso 13 maggio, è stata ripercorsa la storia di entrambe. Cominciamo dalla prima, «opera magnifica e soda», la cui fama varcò i confini d'Italia.

IL TESSERINO DI GUIDA TURISTICA COMUNALE E LA MILLENARIA LIBERA FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI
Questo paese affonda nelle sabbie mobili di un eccesso di presenze ai vertici dei poteri grandi e infimi di una tenace razza padrona di individui con facoltà mentali gravemente ottuse e senza più interesse per il prossimo. È accaduto lo scorso aprile.
Una signora, insegnante di storia dell’arte in pensione, stava illustrando, in forma di lezione, a un gruppo di amici di un’università popolare i monumenti di una città dell’Italia Settentrionale, forte delle sue competenze riconosciute da una vita di studi confortati da esami ed esperienze sul campo, si è vista chiedere da due vigili il tesserino di guida turistica, evidentemente rilasciata dal comune dell’infelice città, e in mancanza del documento rilasciato chissà da quale burocrate avventizio, si è vista infliggere una multa di 1.333 euro.

Tutti capiamo che si tratta di un’inaccettabile limitazione della nostra eterna libertà di goderci dei Beni Culturali delle nostre Città, e di gioirne insieme agli amici e ai più giovani, senza assurde interferenze di dispotiche amministrazioni comunali che si riservano motu proprio il privilegio di permetterne l’uso tramite permessi peregrini. Con questa logica da minus habens e di mancanza di senso democratico e umano si arriverà a imporre un tesserino per respirare. Non si potrà respirare liberamente fuori casa – all’inizio e poi anche dentro casa –,  come tranquillamente facciamo oggi, ma solo se muniti di apposito tesserino attestante il permesso di respirare rilasciato dal cretino di turno. Altrimenti si verrà puniti per esercizio abusivo della respirazione.

L’INTENSO PIACERE DELL’ARTE E DELLA STORIA
Vittorio Sgarbi ha affermato in una delle sue trasmissioni che l’emozione, la gioia, il piacere che trasmette un’opera d’arte è pari al piacere erotico del coito. Jacques Lacan (1901-1981) in uno dei suoi Seminari, dopo avere fatto un viaggio nelle chiese, palazzi e musei d’Italie con esperienze felici intense – soprattutto cita la Santa Teresa d’Avila del Bernini in deliquio erotico –, riprende il concetto freudiano di “sublime”, mediante il quale era integrata l’esperienza estetica nella teoria psicoanalitica, assai vicino alla concezione estetica di Kant, che purificava, per così dire, l’erotismo presente in certi soggetti dell’arte, soprattutto dell’arte classica, sostituendolo con la categoria analitica di “spostamento”. Categoria che piega nella clinica analitica l’interesse erotico dei feticisti che ‘spostano’ le emozioni libidiche, intense, dal seno femminile al reggiseno, o dalle aree erogene al piede, e poi alla scarpa. Nell’esperienza estetica in prospettiva analitica ‘si sposta’ anche il piacere erotico sugli oggetti dell’arte, senza peraltro, possiamo aggiungere, che si perda anche il carattere di sublime; ci sono nella contemplazione estetica e anche, aggiungo, nell’esperienza storiografica, tutte le emozioni grezze e purificate dell’erotismo.

Pescheria. Veduta sottinsù della facciata: una delizia stilistica di linee orizzontali tipica del Buonamici.

Se poi qualcuno di voi dodici, l’eletta di Italia Nostra di Rimini e pochi altri giovani storici, trova questa concezione edonistica e materialistica – in parte lo è sicuramente – e preferisce altre vie e prospettive teoriche, magari spirituali, allora consiglio la lettura degli scritti e l’ascolto degli interventi di Alessandro Giovanardi, che recupera nella fruizione originaria delle opere d’arte religiose la funzione liturgica e mistica sicuramente attestate dai documenti storici.
Alessandro è bravissimo, vero è, ma sto scherzando, che il suo pubblico ideale sarebbe formato da monaci ortodossi russi dell’epoca della granduchessa di Russia Zoè Sofia Paleologa, nipote di Cleofe Malatesta, figlia di Malatesta dei sonetti, nonna di Ivan IV il Terribile, o magari anche di qualche decennio prima, ai tempi dei grandissimi pittori Teofane il Greco e Andrea Rubliov, che hanno una poetica abbastanza vicina al lato bizantino di Giovanni da Rimini e dei suoi fratelli de pictoribus.

Pescheria. L’interno del “porticus” con le luci riflesse sui pilastri toscani o etruschi.

PESCHERIA. LA COMMITTENZA NEGLI ATTI D’ARCHIVIO
Le informazioni archivistiche che espongo sono ben note dalle opere fondamentali di Luigi Tonini, agli interventi di Pier Giorgio Pasini, Angelo Turchini e Cristina Ravara Montebelli, fino all’edizione delle Cose notabili di Rimino, la guida di Rimini attribuita al Buonamici da Piero Meldini, a cura di Patrizia Alunni e Gilberto Urbinati. Le ho controllate in archivio e riprese per ordinarle cronologicamente nell’ambito dell’Agenda dell’autore.
L’illustrissimo, termine preciso per dire nobile, Consiglio Generale di Rimino, composto dai patrizi e dai più ricchi borghesi della città, decide l’erezione della nuova Pescheria il 15 dicembre 1745 – Archivio di Stato di Rimini, Archivio Storico del Comune di Rimini, Verbali del Consiglio Generale AP 874, c.182 v. –
Il giorno precedente, la Congregazione dei Dodici, l’organo amministrativo pressappoco equivalente della nostra Giunta, aveva steso le motivazioni da presentare e approvare nel Consiglio:

“Per ornato della Piazza della Fontana vuole la Città di Rimino levare i Banchi del Pesce ed i Portici presenti che con il loro risalto deformano l’aspetto di detta Piazza. Per eseguire ciò pensa comprare l’Osteria di ragione del Signor Marchese Buonadrata e valersi del Sito per fabbricarvi Portici o Logge da collocarvi i banchi del Pesce in numero di diciotto precedendo l’assenso della Curia Vescovile per gl’appoggi dei nuovi Portici alle Muraglie dell’Osteria [questa di proprietà del vescovo] e per il trasporto delle Camere sopra i nuovi Portici.
Per la Compra del Sito e Fabrica si calcola la Spesa di scudi 1400. A tale Spesa senza aggravio della Comunità concorrono i Padroni delle Barche Pesacarecce con la Tassa volontaria di scudi 8 in luogo dell’annua imposta che danno per l’affitto de Banchi, e cioè per il Comodo di avere i loro Banchi riparati dall’acqua o Sole. Sicché essendo le Barche grosse in numero di 37 si ricavano scudi 296. Da due Barche piccole che si riducono ad una scudi 8. Da quelli che vendono le piccole Partite, e che si vagliono de Banchi amovibili scudi 30. Dal nolo del Camerino per comodo del Daziere del Pesce scudi 8. Il ricavato è di scudi 342. Per l’annuo Dazio e frutti scudi 220. Avanzo scudi 122. Questo avanzo deve servire per estinguere il Censo, il che seguirà in termine di dieci anni, passati li quali, lasciati scudi 22 per il mantenimento della Pescheria restano in profitto della Comunità scudi 100.” Verbali dei Dodici AP 51 cc.140-141.

Non si capisce bene il conteggio, riprodotto uguale nel verbale del consiglio; dev’essere stato omesso un pezzo dei conti; per coprire 1400 scudi con annuo attivo di scudi 556, sono necessari i proventi di tre anni, che fanno scudi 1668, con avanzo di scudi 268. Ma l’aspetto contabile dei documenti finanziari comunali è spesso strano. Comunque sia, come ribadisce l’epigrafe, a pagare la Pescheria sono i padroni delle barche, nell’epigrafe anche i parcenevoli, i grossisti del pesce.
I “pescatori” non erano contenti, come ancora nel 1759 si capisce dalla lamentela, espressa in un memoriale diretto al pontefice, di dovere pagare “un Tempio per Pescheria”.

IL PRIMO – 1745 – E IL SECONDO – 1746 – PROGETTO DELLA PESCHERIA
Esisteva un primo progetto di portici nuovi, per sostituire i portici originari della medievale Piscaria illustrata da Oreste Delucca, che sporgevano sulla piazza, il quale avrebbe occupato il sito retrostante dell’osteria Buonadrata, tra la via delle Tavernelle – oggi via Carlo Pisacane – e l’osteria del vescovo. Sui portici sarebbero state costruite delle “camere”.
Ma il 12 ottobre 1746 i Dodici cambiano il progetto:

“…considerandosi angusto il Sito assegnato per la nuova Fabrica della Pescheria ed essendo altresì in pessimo stato la pubblica Pesa [del grano e delle farine], la quale minaccia imminente la Rovina, sarebbe stato proprio di destinare essa Pesa d’altro loco e servirsi del Sito della medesima per Fabrica suddetta della Pescheria e renderla così più comoda e più propria.” Verbali dei Dodici AP 52 ccc.4v.-5.

Nella seduta del Consiglio Generale del 13 ottobre 1746 la proposta dei Dodici era accettata – con 36 sì e 6 no – e la Pesa era trasferita “dirimpetto la Casa de Bartolini di San Martino”. Verbali del Consiglio AP 836 c.27.
Con questo ulteriore acquisto di spazio, data all’ottobre del 1746 il progetto definitivo della Pescheria, unanimemente attribuito dai contemporanei all’architetto Gianfrancesco Buonamici (1692 -1759). Un lungo portico cinque volte la larghezza del lato corto, 9 arcate nei due lati lunghi, 3 in facciata, 1 nella facciata posteriore e la copertura a capriate.
La dimensione urbanistica era esaltata dalla creazione della via parallela a via delle Tavernelle, che isolava il portico, illuminandolo da due parti, e raccordandolo con due archi alla linea orientale delle case della piazza.

A lavori ultimati ci fu l’ultimo decisivo intervento urbanistico del cardinale legato Pompeo Aldrovandi per l’apertura della piazzetta posteriore; nei verbali dei Dodici sotto il 19 agosto 1747:

“Per compimento della Fabrica della Pescheria riuscita plausibile e magnifica in tutte le sue parti desidera l’Eminentissimo Signor Cardinale Legato, che si apra nel fondo della medesima una piazzetta, ad effetto che con questa diasi maggiore sfogo, lume e nobilità a detta pubblica Opera.” Verbale dei Dodici AP 52 c..37 v..

Il Consiglio fece sua l’iniziativa dei Dodici e furono acquistate due case di Angelino Gervasoni Angelini per scudi 500; l’intera spesa risultò di scudi 2.600; con censi o prestiti i cui interessi al 5% erano ritenuti usurai – il pontefice consentiva prestiti con interessi al 3 % –. Verbali dei Consigli AP 875, cc. 27 v.-28.
Fu posta nell’attico un’epigrafe (si veda l’articolo di Salvatore De Vita nel sito Rimini 2.0); Cristina Ravara Montebelli ha segnalato il ritrovamento di pavimenti antichi durante lo scavo delle fondazioni e l’autore del testo epigrafico: il dottor Giovanni Bianchi, alia Janus Plancus.

PESCHERIA: L’«AGENDA» DELL’ARCHITETTO
La categoria centrale dell’arte classica, e secondo il decano dei critici letterari americani Harold Bloom (1930-2019) anche di tutta l’arte di ogni tempo, letteratura compresa, è “l’influenza”, quel dovere fare i conti dei creatori con la tradizione dei “padri”, i “precedenti”, con l’intento di imitarli ma anche, se possibile, con molti sensi di colpa, migliorarli e superarli.
Così una ricerca su un artista classico deve iniziare dai conti che l’artista ha fatto o non ha fatto con il linguaggio architettonico dei suoi padri, l’architettura millenaria degli ordini classici, riesumata nel ‘400, per inserirsi con il suo linguaggio nella consolidata tradizione.
Possiamo immaginarci, a partire dal costruito, nella mente dell’architetto i processi creativi, i pensieri che gli erano venuti dalla profonda “mente estatica”, come viene definita da Elvio Facchinelli, la parte creativa della psiche e gli interventi connessi della coscienza educata e sperimentata nei modi in cui si era educato – il “punto di sella”, dove le due curve inconscio/conscio si toccano in un unico punto, elaborazione teorica della poetessa Patrizia Valduga e di Silvia Vizzarelli, esperta di estetica analitica –.

Pescheria. La soluzione d’angolo concava del portico. Indizio di influenza romana borrominiana.

PESCHERIA. SCELTA DEL MODELLO: IL PORTICUS E LE NEVIERE
Tuttavia, la prima cosa a cui il Buonamici avrà pensato sarà stata la scelta del modello, con la valutazione dei precedenti antichi e recenti. Cosa avrebbe progettato un architetto antico?
Niente di diverso da quello che avevano previsto i consiglieri comunali nobili e ‘meccanici’.
Una taberna ossia una sorta di camerone molto lungo per adattarsi alla stretta porzione di terreno della medievale piscaria. Meglio: una costruzione aperta su tutti i lati: un porticus, appunto.
Lo vediamo chiaramente da dietro, il lungo portico che si salda davanti con una facciata a tre archi.
Modello semplicissimo e antico.

Di nuovo rispetto agli antichi qualcosa però c’era, non proprio nell’edificio, ma nelle sue vicinanze, per la precisione sia sul Corso che nella parte settentrionale dell’attuale piazza Malatesta, vicino alla cattedrale di Santa Colomba. Da un secolo conosciute, le neviere o conserve o ghiacciaie erano curiosi edifici funzionali dalla forma sferica, che nel ‘700 si andavano diffondendo in città. Nella parte bassa all’interno della sfera, dove a volte c’era un pozzo, d’inverno veniva pressata la neve e se non ne era caduta abbastanza allora la si faceva venire dalle alte valli del Marecchia e del Conca. L’ambiente veniva coperto di terra con l’apertura bassa stretta e lunga ben serrata. Dentro si potevano conservare il pesce, la carne e altre derrate deperibili. A Rimini non ne sono rimaste, ch’io sappia, ma diverse se ne trovano lungo il porto canale di Cesenatico, una nel castello di Coriano e una in quello di Montescudo.

Dal volume “Fabbriche fatte sul Porto di Pesaro” del Buonamici: 1754 veduta parziale del porto di Pesaro ricostruito dall’architetto riminese nel 1750 con la torre del faro e la “Teggia” o “Navale” o “Arsenale”, l’altra architettura funzionale del Buonamici da confrontare con la Pescheria di Rimini.

PESCHERIA. LA SCELTA DELL’ORDINE: DORICO, ANZI TOSCANO
Nell’arte gotica la verticalità, certi interni con volte altissime di cattedrali che a guardarli danno le vertigini, era stata la dimensione dominante, gli occhi e la mente erano obbligati alla trascendenza, a guardare in cielo. Dal ‘400 invece si era diffusa la sintassi spaziale degli antichi più ricca di effetti mondani e meglio funzionale al potere.
Nel riscoperto testo di Vitruvio de architectura libri x lo spazio dell’universo aveva la forma della massima sfera, sezionato lungo l’asse in un cerchio rivelava nel microcosmo la sua caratteristica antropomorfa, ospitando un corpo umano virile a braccia aperte: un corpo con due metà specularmente simmetriche. Gli edifici per ragioni di statica e di bellezza dovevano ubbidire ai principi di questo spazio cosmico antropomorfo, che garantiva la staticità delle colonne e dei muri e insieme la bellezza dell’armonia simmetrica speculare.

Ma questa unità spaziale si articolava in tre forme antropomorfe diverse che nella tripartizione greca come Vitruvio aveva insegnato si chiamavano dorico, ionico e corinzio – da aggiungere il toscano, una variante del dorico e il composito una variante del corinzio, ordini romani –.
Un edificio dorico – e toscano –, secondo Vitruvio, si ispirava alle forme e proporzioni di un giovane corpo virile muscoloso, l’altezza delle sue colonne o pilastri o paraste doveva essere 6 volte la misura della larghezza del diametro di base, così come l’altezza di un corpo virile ben formato era 6 volte l’altezza del piede. L’effetto era di sodezza, forza, robustezza.
L’edificio ionico e quello corinzio invece si ispiravano alle forme e proporzioni di un corpo giovane femminile o di un adolescente maschio, la cui altezza era nove volte la misura del piede, e l’edificio aveva colonne 8 volte la misura del diametro di base. L’effetto era di snellezza, eleganza e leggerezza.
I templi dorico erano per gli Dei maschi, quelli ionici per le Dee e i corinzi esprimevano il massimo dell’eleganza e della sacralità. Il teorico bolognese Sebastiano Serlio (1475 c—1564 c.) convertiva gli ordini: consigliava il dorico e toscano per chiese dedicate ai santi maschi e lo ionico per chiese dedicate alle sante; il corinzio per Cristo, la Vergine e per tutti volendo esaltarne l’importanza.

Dal volume citato, la “Teggia”, opera in stile toscano o etrusco, lo stesso usato quattro anni prima nella Pescheria di Rimini.

I capitelli toscani della Pescheria, in sostanza non diversi da quelli dorici, sono del tipo romano e rinascimentale con la parte superiore, sotto un lastrone – l’abaco – di forma ‘a ciambella’ rovesciata – ossia, per loro, con la forma di un riccio mare, l’echino – molto bassa, e con un collarino poco più in basso. Questi della pescheria fanno un curioso effetto cubista perché sono piegati alle forme rettangolari dei pilastri e delle paraste, e la ‘ciambella’ è privata delle sue rotondità.

Il Buonamici avrebbe anche potuto costruire un edificio senza capitelli, con pilastri e fasce, secondo i dettami dell'”architettura senza tempo” scoperta da Federico Zeri – non però senza le proporzioni di un ordine, ma l’affacciarsi della Pescheria sulla piazza del governo e dell’amministrazione della città, esigeva un edificio nobilitato da un ordine, anche quello più semplice, e con una facciata, come vedremo più sotto.

Il vero dorico greco antico fu conosciuto solo nella seconda metà del secolo da archeologi che si erano inoltrati nella Magna Grecia e in Grecia, quando Francesco Piranesi pubblicò delle incisioni dei templi di Paestum: sotto un volume schiacciato quadrato – l’abaco – una larga ‘ciambella’ – l’echino – si salda subito con il corpo della colonna, che non ha base. A Rimini all’inizio del secolo XIX due case della curva dei portici di piazza S. Antonio, oggi Tre Martiri – la c.d. casa di Bonvilo, di Giuseppe Achilli (1752-1810) e la seconda casa a partire dalla parte verso il ponte –, presentano capitelli dorici e colonne dalle forme dell’epoca arcaica greca.

PESCHERIA. LA SOLUZIONE AD ANGOLO SMUSSATO
Nei quattro angoli interni della Pescheria ci sono le fontane in forma di delfini ospitate in una sorta di nicchia o andamento concavo che definisce quasi tutta la parete.
Il motivo della soluzione d’angolo con una curva convessa o concava, o anche semplicemente con una traversa retta a chiudere l’angolo creando una base ottagonale, è di origine urbinate. Gerolamo Genga (1476-1451) pittore e architetto di Francesco Maria I della Rovere duca di Urbino, l’aveva usato nel cortile inferiore della villa Imperiale, e nel presbiterio della chiesa di S. Francesco di Pesaro. Opere che non erano passate inosservate ancora alla metà del secolo XVIII quando Luigi Vanvitelli, che doveva averle viste nella sua trasferta ad Ancona, disegnava i quattro cortili della reggia di Caserta con soluzioni d’angolo convesse, e prima nel ‘600 a Roma da Francesco Borromini (1599-1667) nella cappella dei Magi nel Palazzo di Propaganda Fide.

In Portogallo, una simile soluzione si vede nel maestoso e lussuoso chiostro del Convento di Cristo a Tomar, antica sede dei Templari, attribuito a Filippo Terzi (1520-1597) – l’architetto bolognese il cui nome ho proposto come autore del c.d. palazzo Garampi – che da Urbino si era rifugiato a Lisbona, ma che il mio caro amico Armindo Ayres De Carvalho (1911-1997) pittore e storico dell’arte ha giustamente rivendicato a Francisco de Hollanda (1517-1585), noto per una biografia di Michelangelo, sul cui taccuino di disegni si trova un’immagine del cortile della Villa Imperiale di Pesaro.
Come vedremo di sotto, questo motivo, nella forma convessa borrominiana, ritorna a Roma nella chiesa delle Stimmate di S. Francesco.

SOFFITTO E PAVIMENTO
Il soffitto a capriate, nell’immaginario settecentesco, non è uno spazio architettonico; poteva essere destinato ad essere coperto da una volta reale o, più probabilmente, da una volta ad arelle e gesso. Se fossero rimasti i disegni vedremmo cosa era previsto. Al momento tralasciato, il soffitto a curva a tre centri con vele negli angoli, avrebbe avuto necessità di un muro sommitale più alto di quello costruito. Quindi è probabile che fin dall’inizio l’architetto avesse pensato al ‘non spazio’ delle capriate; in fondo il “Tempio” dei pescatori era una architettura di servizio.

L’attuale pavimento è composto di lastre quadrate di marmo: quello originale doveva essere di mattoni messi di taglio.

Quattro esempi locali dell’ordine doppio o ‘condensato’: 27 a.C. l’Arco di Augusto presenta l’arco e il suggesto etrusco-italici e l’ordine corinzio che li inquadra; rappresentano la diarchia Senato / Augusto, varata proprio in quell’anno. Nel primo ordine della facciata del Tempio Malatestiano, Leon Battista Alberti rende omaggio al monumento augusteo di Rimini. L’architetto pesarese-urbinate del Palazzo pubblico nella piazza della Fontana poi Cavour, introduce a metà ‘500 il tema dei due ordini condensati che il Buonamici nel 1746 e poi, con maggiore lusso, il Poletti nel 1842, riprendono per dare, circa a parità di altezze, ai piani terreni della piazza una maggiore unità formale.

PESCHERIA. “OPERA MAGNIFICA E SODA”
Pressoché unanime fu il coro degli apprezzamenti testimoniati dai contemporanei per la Pescheria: lo stesso autore: “opera nell’esser suo sodo e magnifico molto lodevole”; Carlo Francesco Marcheselli: “un magnifico porticato”; Marcello Oretti bolognese: “loggia molto bella”; sul giudizio di Francesco Algarotti si veda sotto.
Dai pilastri di ordine toscano della Pescheria si indovina l’insieme delle proporzioni di carattere sodo e robusto, come nell’altro edificio funzionale progettato e costruito dal Buonamici, la teggia o arsenale sul porto di Pesaro; che conosciamo da incisioni dell’epoca pubblicate dallo stesso architetto – vedi sotto -.

GIANFRANCESCO BUONAMICI. LA TEGGIA O ARSENALE DI PESARO, 1750
Le lodi per la Pescheria di Rimini sono tra le poche se non le uniche che i contemporanei riservarono all’architetto riminese. Il Buonamici ebbe a soffrire di critiche spietate per tutta la sua vita professionale. Si disse che i suoi edifici erano ‘massicci’ perché lui, architetto pittore senza esperienza di cantiere, per stare nel sicuro aumentava lo spessore delle sue strutture portanti.
Si disse anche che la teggia di Pesaro, che aveva l’aria di un tempio con pilastri reggenti il peso del tetto, con crepe avesse dato segni di crollo imminente, tanto che i pesaresi l’avevano demolita.
Ma un’altra accusa, formulata dall’architetto frate camaldolese Paolo Soratini, che la sua carriera fosse stata favorita da “buoni amici”, era vera; il nostro aveva un cugino germano Giovanni Antonio Bonamici (?-1761) che era a Roma un alto dirigente nel settore dei tabacchi.

Mi sono occupato delle fabbriche del Buonamici sul porto di Pesaro, commissionate dal cardinale legato Giovan Francesco Stoppani (1695-1774), in particolare della “teggia” o “arsenale” che il porporato aveva pagata di tasca sua, che conosciamo attraverso le incisioni di un’opera pubblicata dal Buonamici stesso: Fabbriche fatte sul Porto di Pesaro sotto la Presidenza dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Gianfrancesco Stoppani ora Legato a latere degli Stati di Urbino. Architettura del Cavaliere Gianfrancesco Buonamici Accademico Clementino, Lelio Della Volpe, Bologna 1750.
Anche la Teggia – detta anche Navale e Arsenale – era un voluminoso edificio toscano su pilastri con una copertura a doppio timpano, come un tempio – un Tempio per teggia, avrebbero potuto dire i malevoli Pesaresi –, serviva per la fabbricazione e la riparazione delle barche. Il legato Stoppani era un uomo di Stato di sicura moralità politica e anche un coraggioso riformatore, qualità per le quali era stato odiato a morte dal mainstream di nobili e borghesi che amministrava Pesaro, un’eletta di ladri, come a Rimini – ho le prove! -. Quando il cardinale non fu più in servizio, i suoi nemici pesaresi misero in giro la voce che il tetto della teggia aveva dato segni di rotture e che stava per crollare. Allora, per timore di un disastro imminente, il regalo cardinalizio venne distrutto; fu conservata solo la base nella quale vennero ricavati quattro porcili e Annibale degli Abbati Olivieri, un personaggio certamente di sicuro valore e benemerenze culturali, si preoccupò di farlo sapere con una lettera meschina al cardinale a Roma ormai pensionato.

PESCHERIA: LA FORMA DELLE SINGOLE CAMPATE
Torniamo alla nostra Pescheria. Ci aspetta un’analisi autoptica delle mebrature e degli spazi architettonici. Dobbiamo metterci le michleangiolesche “seste degli occhi” per valutare nell’insieme e nei dettagli le forme e le strutture.
Chiamavano ordine anche quello che per noi è un piano, e solitamente si presenta con colonne o pilastri di un solo ordine stilistico. Quando si tratta di edifici a più piani con ordini sovrapposti – in genere nella sequenza dorico o toscano, ionico e corinizio o composito dei romani Tabularium, teatro di Marcello e Colosseo – o anche a un solo pian terreno con sopra un muro, allora l’ordine dorico o ionico o corinzio si presenta rafforzato da un ordine inferiore ad archi che nascono da pilastri ornati di capitelli, come nel caso della nostra Pescheria. Abbiamo allora per ogni campata del portico un modulo con una doppia parasta o pilastro ‘giganti’ che reggono una trabeazione orizzontale – se completa, formata da architrave, fregio e cornice – dentro il quale si incunea un ordine minore con un arco, nel caso della Pescheria di Rimini un semicerchio non del tutto completo con il suo capitello toscano.

Il modello è antico ed ellenistico. A Roma appare per la prima volta nel doppio colonnato dotato di archi del tabularium del primo secolo a.C. e poi nel teatro di Marcello e nel Colosseo. A Rimini c’è un esempio nell’Arco augusteo che presenta anche una doppia significazione allegorica: la diarchia augustea inaugurata proprio nel 27 a.C.. L’arco che con le seste degli occhi, come voleva Michelangelo, riusciamo a capire che ha la luce di un cerchio, fino al livello della zoccolatura arcaica, italica o etrusca, rappresenta il Senato; il sovrapposto ordine corinzio che lo inquadra, le semicolonne e la trabeazione col fastigio ellenistici rappresentano l’imperatore Augusto, il Princeps.
Questa forma venne ripresa da Leon Battista Alberti nella facciata del Tempio Malatestiano datata 1450.

PESCHERIA: LA FACCIATA
La facciata della Pescheria si salda con il porticus retrostante e lo collega con la piazza. Ha qualche ricordo persino della facciata del Tempio malatestiano: tripartita a doppio ordine e con le ali di raccordo tra il primo ordine e l’attico che contiene l’epigrafe dedicatoria. Questo raccordo con una sola voluta e un risalto, curiosamente ricorda il disegnino fatto dall’Alberti nella lettera a Matteo de Pasti del 1454, chissà come conosciuto dal Buonamici, forse un residuo dell’archivio malatestiano ancora nella biblioteca dei Francescani?

In piazza della Fontana poi il doppio ordine si sarebbe accordato con la simile struttura architettonica del pian terreno del così detto Palazzo Garampi –, opera di un architetto serliano roveresco della metà circa del secolo XVI; potrebbe essere Filippo Terzi –, con i capitelli dorici dell’ordine inferiore che mostrano un taglio emergendo dalle paraste, come nel primo orrdine michelangiolesco della Basilica di San Pietro a Roma, nel simile connubio della loggia Cornaro a Padova del 1524, e nel cortile di palazzo Gambalunga, opera da me attribuita a Giovanni Laurentini Arrigoni – Laurentini e Arigoni o Arrigoni sono due cognomi ma gli sprovveduti continueranno a chiamarlo Giovanni Laurentini ‘detto’ l’Arrigoni, come se si dicesse Dezzi detto Bardeschi, per restare nel campo dell’architettura –.

Lo stesso problema di raccordo di un nuovo edificio con la piazza si pose nel 1842 con Luigi Poletti (1792-1869) quando raccolse le idee per la creazione della facciata del suo magnifico teatro. Guardate bene la facciata del teatro: l’eleganza dell’ordine superiore ionico nel piano terreno, elaborazione archeologica delle colonne ioniche del tempio greco di Atena a Priene, al posto delle piatte paraste, e nell’ordine superiore corinzio la rara forma di capitelli compositi romani resi familiari dalle incisioni romane di Francesco Piranesi. Un lusso di citazioni e di eleganze raffinate che però si accorda con i motivi analoghi, più modesti, del palazzo c.d. Garampi e della Pescheria del Buonamici.

PESCHERIA. I COLORI
La Pescheria di Rimini ha perduto la sua pelle cromatica, il rivestimento con uno strato di calce e un intonaco, come tutti gli edifici antichi che solo dalla metà dell’ottocento via via nei restauri sono stati ‘scorticati’. La bellezza degli apparati murari e dei materiali di cotto e litici che apprezziamo adesso non era destinata a vedersi.
I colori nel ‘700 erano quelli mimetici: il rosso e il giallo in diverse gamme, il primo imitava il colore dei mattoni, il secondo quello dell’arenaria e del calcare. Mi pare di ricordare che mezzo secolo fa, quando sono arrivato a Rimini, l’interno della Pescheria fosse ancora intonacato e dipinto di un colore aranciato.
I colori degli edifici pubblici della piazza nel medioevo erano quelli araldici del comune, il bianco e il rosso, ancora nel ‘600 la torre dell’Arengo era dipinta di bianco e di rosso, ma forse l’Arengo, con il nuovo palazzo comunale, era stato colorato con i colori mimetici. Cristina Ravara Montebelli ha trovato nelle cronache di Filippo Giangi che la Pescheria nell’agosto 1824 “fu riattata e fatti dipingere vari Santi da mano pochissimo esperta il tutto a spese di quei pescivendoli.”
Potrebbe trattarsi della tempera molto sporca dipinta sopra l’arco nella controfacciata posteriore; attribuita ad Alessandro Bornaccini (1772-c.1829), si veda sotto.
Rimane da dire della pietra d’Istria, come possiamo vedere nelle superfici lisciate del primo recinto della fontana, la pietra d’Istria è un calcare che se viene lisciato, per esempio con polvere di pietra pomice – come veniva fatto fino all’800 nei bassorilievi di Agosino di Duccio del Tempio Malatestiano – acquista l’aspetto di un marmo lucente color paglierino. I quattro delfini all’interno della Pescheria sono di pietra d’Istria, come la fontana dei Delfini unico manufatto buonamiciano sul Porto di Pesaro.

PESCHERIA. LA FAMA EUROPEA
I miei lettori conoscono già la venuta a Rimini di Francesco Algarotti (1712-1764) nel 1761, e il principale motivo di interesse per lui, che aveva incarichi ufficiali come storico di guerra presso il re di Prussia Federico II e Augusto IIl elettore di Sassonia e re di Polonia. Voleva vedere il fossato di Castel Sismondo “opera” di una grande mente e di un famosissimo ingenio, come aveva letto nella faticosa traduzione in volgare del de re militari di Roberto Valturio fatta da Paolo Ramusio e aveva stretto un rapporto epistolare nel 1758 con il dottor Giovanni Bianchi.

L’Algarotti descrisse il suo viaggio pittorico in Romagna in una lunga e interessantissima lettera all’incisore ed erudito parigino Pier Jean Mariette (1694-1774), che avrebbe parlato di Rimini nelle conversazioni culturali parigine; e allo stesso interlocutore scrisse un’altra lettera da Bologna il 29 agosto 1761, che è un specie di guida turistica esauriente dei “pezzi” archeologici, pittorici e architettonici di Rimini, parzialmente pubblicata da Pier Giorgio Pasini in Rimini città come storia 1, che merita di essere pubblicata per intero. La prima lettera è stata pubblicata dall’indimenticabile Andrea Emiliani (1031-2019) in quella favolosa opera da lui curata Questa Romagna 1 e 2 dove è fotografato da Paolo Monti (1908-1962) l’intero patrimonio culturale della nostra regione e sono presentati i suoi protagonisti dal ‘700 al ‘900. I contributi degli studiosi locali però non sono tutti di eguale valore. Il palazzo dell’Aquila d’oro di Rimini, opera documentata dall’ingegnere distrettuale Pietro Romiti degli anni tra il 1816 e il 1818, è scambiato con il palazzo Valloni opera di Giuseppe Valadier degli anni subito posteriori al terremoto del 1786.

Il brano della Pescheria è questo:

“Di moderne fabbriche è da mostrasi la pescheria; forse la migliore fabbrica che innalzasse il Boamici con di nelle tavole di marmo, e con fontane come a simili luoghi si richiede. E ben conveniva che di una bella pescheria fornita fosse una Città, la quale ha con la pescagione da trentamila scudi l’anno di profitto. Manda il suo pesce a Bologna, in Toscana eziandio. Ne fanno gran consumo gli Eremi di Camaldoli, dell’Alvernia, di Valle Ombrosa; posti diverso la Romagna; fanciullagini dirà Ella, rispetto al traffico che si fa dalle loro bande colle aringhe e co’ merluzzi, che di Terra Nuova vengono a nutrire mezza Europa. Così è; ma chi è piccolo ha da tener conto di ogni piccola cosa. E però si reputa un gran che, che si contino in Rimini fino a dodici filatoj da fare l’organzino, e che vi sia una manifattura dove si separi il zolfo, che viene dal paese di Cesena.”

Non ci sono aggettivi o descrizioni che diano ragione del giudizio “una bella pescheria”, come tra l’altro l’Algarotti giustifica il suo giudizio sul “Tempio” o “chiesa di San Francesco”: “una delle più belle fabbriche moderne che vi siano in Italia”; e spiega: “la fabbrica ha un sodo maestoso”. Il “sodo” dorico o toscano è la categoria estetica della Pescheria.
E, conoscendo l’essenziale del dibattito algarottiano sull’uso degli ordini classici, credo si possa affermare che il veneziano abbia apprezzato l’uso dell’ordine toscano in un edificio funzionale.
L’Algarotti era stato allievo nell’apprendimento della lingua greca del frate francescano Carlo Lodoli (1690-1751) detrattore dell’architettura classica e primo a sostenere un’architettura funzionalista che poi venne seguito dal gesuita francese Marc Antoine Laugier (1713-1769).

CARLO LODOLI. “NESSUNA RAPPRESENTAZIONE SENZA FUNZIONE”
In diverse opere l’Algarotti polemizza amabilmente col suo caro maestro di greco, esamina le sue ragioni per l’eliminazione degli ordini e le respinge. Il Lodoli sosteneva che l’architettura degli ordini, nata dal modello della “capanna primitiva” – andate a vederlo su Google – era legata alla materia legno, mentre il tradurla in forme di pietra o di mattone creava qualcosa di inappropriato, pericoloso e di falso. Inoltre era dominante a suo avviso il concetto di “funzione”; il suo mantra: “niente si deve mettere in rappresentazione che non sia in funzione”. La “natura” metteva in rappresentazione nelle sue opere fisiche, vegetali e animali l’essenza funzionale delle cose e degli esseri viventi. Nessun ornamento senza funzione.
L’Algarotti gli obiettava che la natura seguiva anche il principio estetico della simmetria, per esempio nei seni degli animali maschi che non avevano funzioni come l’allattamento o altre da espletare.
Da queste osservazioni il mantra dell’Algarotti: “del ver più bella è la menzogna”. Aveva certo in mente gli edifici del Palladio, che in quei momenti venivano imitati in Europa e nel mondo – Saggio sopra l’architettura Venezia 1784 p. 43 –.

PESCHERIA. IL DIPINTO DI ALESANDRO BORNACCINI

Sul muro di fondo della Pescheria c’è un dipinto poco leggibile coperto da un velo nero di sporco; rappresenta Gesù davanti a Pilato. Fotografato è meglio leggibile ed è subito evidente il facilmente riconoscibile linguaggio del bottegaio incisore Alessandro Bornaccini (1772- c.1829). Si veda: Alessandro Bornaccini (1772-c.1829) e Giuseppe Bornaccini (?-1842) esperto di “ragionateria” note biografiche; Andrea Donati, Alessandro Bornaccini da pittore graveur a incisore d’apres, nella edizione Luisè della Storia di Rimino, Rimini 2006.

1-segue

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