Le terze mura medievali a mare di Rimini e del Borgo di San Giuliano

Le terze mura medievali a mare di Rimini e del Borgo di San Giuliano

Si conclude con questo quarto intervento del prof. Rimondini il percorso alla riscoperta delle antiche mura di Rimini, che ha riservato molte sorprese. E quello che chiude questo viaggio attraverso la storia non fa eccezione.

Le terze mura a mare di Rimini sono datate al ‘200, con la così detta “addizione federiciana” perché attribuita dal Clementini all’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250). Si trattava di includere dentro il recinto murario in gran parte quel triangolo di terreno che era sprofondato per la subsidenza. In quel momento i notabili e i guerrieri della città, compresi i Malatesta erano del partito imperiale o ghibellini.
Questa addizione comprende un triangolo di terreno urbano che, secondo un’ipotesi di lavoro dello scrivente già esposta, potrebbe essere stato in antico parte della forma urbis Arimini scomparso in seguito ad un qualche cataclisma e/o insieme sprofondata di circa quattro metri per un fenomeno di subsidenza, il maggiore indizio del fenomeno sarebbe il ponte romano sprofondato con le sue rampe di accesso e i pilastri da cui nascono gli archi. E’ curioso che i così detti addetti ai lavori, archeologi e geologi, non se ne siano ancora accorti. Nel secolo XIV i Malatesta ripresero a costruire o a rafforzare le mura del Duecento, sostituendo le ultime palizzate con dei muri di mattoni. A mare nella parte orientale riutilizzarono il muro romano dall’Anfiteatro all’uscita della Fossa Patara, che abbiamo illustrato.
Delle mura precedenti il ‘200 sono rimasti alcuni tratti molto rovinati nel Borgo San Giuliano.

I Malatesta aggiunsero alle mura della città, per la difesa della spiaggia del mare, un telo di mura fin dentro il mare con due torri aperte sul retro e al suo termine nell’acqua alta del mare una torre intera, chiamata nel ‘700 la Torraccia. Le mura e la Torraccia, dalla parte del Borgo di Marina furono scambiate dal Clementini, come è stato in precedenza esposto, con un secondo porto romano di Ariminum. Il presunto faro o Torraccia medievale arrivava dentro il mare fin dove l’acqua alta non lasciava passare un guerriero che non sapesse nuotare. Un muro simile a questo partiva dall’angolo delle mura del Borgo di San Giuliano verso marina e arrivava in mare per proteggere la spiaggia da quel lato, con le sue dune, gli acquitrini e i primi orti. Con questi due muri e torri entrambi i lati della spiaggia erano parzialmente protetti a poche decine di metri oltre le fortificazioni della città. Non era poi una grande furbata, la spiaggia era facilmente occupabile dal mare con poche barche, ma in occasione dell’assedio del 1469, le truppe pontificie erano rimaste imbottigliate sulla spiaggia tra il Marecchia e la Torraccia; in seguito erano riuscite ad impadronirsi delle “bertesche di mare” fino alla loro congiunzione con le mura della città, ragione per la quale forse nel 1517 papa Leone X, come vedremo, aveva fatto costruire nel punto di contatto delle bertesche di mare con le mura della città una torre cilindrica, detta la Tenagliozza.

LE PORTE A MARE TRA EPOCA TARDO ANTICA E I NOSTRI GIORNI. IL CANEVONE DEI VENEZIANI

In età alto medievale, nell’area del Canevone dei Veneziani esisteva una piccola porta chiamata portello dei Duchi – qualcuno pensa che vicino alla torre del muro imperiale, che abbiamo visto nella puntata precedente, vi fosse una porta tardoimperiale.
Il Canevone dei Veneziani è un palinsesto di abitazioni ‘gotiche’, stranamente piccole ma ben articolate con finestre e portoni di bel disegno gotico, assemblate nel ‘400 in un “canevone” o magazzino, nel quale si poteva mangiare e bere vino. Un riminese proprietario l’aveva lasciato in testamento all’Abbazia di Santa Maria di Valverde di Venezia, una grande istituzione ecclesiastica ‘privata’, che apparteneva alla Cà Moro, una numerosa parentela di nobili famiglie veneziane patrone dell’abbazia.
Nelle mura trecentesche, che il Tonini suppone esistenti in parte più indietro rispetto a quelle che vediamo, vi doveva essere la prima porta Galliana. Della seconda porta Galliana abbiamo già scritto nell’articolo che inizia questa serie. Questa porta è collegata con un telo di mura di fondazione trecentesca ma più volte ristrutturato ancora esistente lungo tutta la via Bastioni Settentrionali. In fondo a via di Marina (attuale via Giovanni XXIII) si apriva la porta di Marina, che nel 1371 era ancora di secondaria importanza, per diventare poi la porta principale del Borgo di Marina.

E’ rimasta la documentazione grafica dell’ultima porta Marina – già di San Giorgio o dei Cavalieri – e la documentazione fotografica della “Barriera” che nel 1863 l’ha sostituita, progetto dei due allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, Eugenio Sinistrario e Francesco Bernasconi.
La Barriera doveva dare importanza e monumentalità all’unica via importante dalla città per la ferrovia e per il mare, che si era chiamata via al mare, e poi dalla fine del regime pontificio via Principe Umberto e nel dopoguerra via Giovanni XXIII. Poco distante dalla piazza della Fontana, nel periodo unitario dedicata al conte Camillo Benso di Cavour, la via portava al piazzale della Stazione e al viale Principe Amedeo – il secondo figlio di Vittorio Emanuele II – che raggiungeva la rotonda dello Stabilimento Bagni, ancora di proprietà di Alessandro e Raffaele Baldini. E’ solo all’inizio del ‘900 che da piazza S.Antonio, chiamata poi piazza Giulio Cesare e dal dopoguerra piazza Tre Martiri, viene aperta via IV Novembre e via Dante per arrivare alla Stazione Ferroviaria spostata verso l’Ausa. Nello stesso tempo tutte le mura del lato verso il mare dalla Barriera all’uscita della Fossa Patara (piazza Clementini) vengono distrutte e i terreni lottizzati.

LE TRE MURA MEDIEVALI DEL BORGO SAN GIULIANO

In un documento del 1177 il Borgo San Giuliano appare già murato, o meglio dotato di un muro che non sappiamo se sia stato un muro continuo o intervallato da palizzate, certamente con davanti un fossato, e nel corso dei secoli seguenti queste mura avranno subito dei risarcimenti e delle ricostruzioni. Di queste mura primitive se ne vedono due tracce, una poco dietro la chiesa di San Giuliano, e una in via Chiavica che poi prosegue per un tratto nell’area della clinica Villa Maria.
Sono muri costruiti con due cortine esterne di mattoni e riempiti con sassi e una sorte di calcestruzzo, secondo il metodo romano.

La seconda murazione medievale del Borgo si deve ai Malatesta e fa parte della ristrutturazione generale del recinto murario della città con alte torri a base rettangolare. Fu iniziata nel 1352 e continuata negli anni seguenti. Mentre in città l’aumento del terreno recintato fu abbastanza contenuto, nel Borgo l’addizione urbana fu notevole; le nuove mura aggiunsero al Borgo quasi un terzo dell’area urbana precedente. In questa nuova area vennero costruite anche case di un certo livello – recenti scavi di Adarte hanno recuperato splendide decorazioni con levrieri in terracotta – appartenenti ad una scomparsa residenza malatestiana. La tradizione storiografica e molti documenti trovati da Oreste Delucca parlano di una trasformazione della maggior parte di quel terreno in un giardino o luogo di caccia dei Malatesta, l’Orto dei Cervi o dei Daini.
Dopo la fine dei Malatesta l’orto o giardino dei Cervi venne trasformato in area ortiva effettiva.
Negli anni ’30 il podestà Pietro Palloni fece tracciare il viale XXVIII Ottobre (1922 marcia su Roma) e destinò a giardino pubblico quello che restava dell’antico giardino malatestiano. Nel dopoguerra la via venne dedicata a Giacomo Matteotti uno dei primi martiri dell’antifascismo. Il viale di pini “storti” con fantastici effetti fiammeggianti e la sistemazione del giardino fu consigliato dal migliore architetto da giardini del tempo Pietro Porcinai (1910 – 1986) che negli anni ’70 curò anche la sistemazione del parco Marecchia.
Dopo l’assedio pontificio del 1469, a un anno dalla morte di Sigismondo Pandolfo, Roberto dovette ricostruire le mura trecentesche che le truppe pontificie prima di andarsene avevano smantellato, bruciando anche le case del Borgo. Su queste terze mura vedi sotto.

LA “PORTA PORTUENSE” O “PORTICELLA” O “PORTA GERVASONA” DEL BORGO SAN GIULIANO 1371 – 1734

La porta sull’Emilia del Borgo San Giuliano non è rimasta; era presidiata come quelle della città, da meno di dieci uomini per metà armati di armi bianche e per metà con balestre, comandati da un connestabile. Ma vi era anche una porta meno sorvegliata che metteva in comunicazione il Borgo col mare e col porto. La prima porta di Marina del Borgo, nelle mura del secolo XII, era detta porta Gramignola, dal nome di una famiglia che vi abitava vicino; era situata nel primo muro sulla “contrada del fiume”, che oggi si chiama via Marecchia; questa porta al momento dell’ampliamento delle mura del Borgo nel ‘300 non fu più custodita. Una nuova porta, aperta sulle mura malatestiane della metà del ‘300, esisteva nel 1371, come sappiamo dalla Descriptio Romandiolae del cardinale Anglic Grimoard, ed era custodita solo da due uomini.
Dopo la distruzione delle mura del Borgo e l’incendio delle case alla fine dell’assedio del 1469, assai probabilmente questa porta venne riaperta nel nuovo muro delle “torricelle” di Roberto Malatesta, per consentire il passaggio dei marinai che volevano raggiungere il porto. Da quel punto si poteva passare il canale attraverso un guado.

Rimando per tutte le dettagliate informazioni da me utilizzate al prezioso volume di Oreste Delucca L’abitazione riminese del Quattrocento, nella parte che riguarda il Borgo di San Giuliano.
Per la porta di Marina del Borgo, relativamente al Settecento, credo di poter arricchire la conoscenza storica con qualche nuovo contributo d’archivio.
All’inizio del ‘700 una porta di Marina, un “ussetto” o porticina, c’era ancora ma non sempre era aperta e disponibile per il passaggio. “Li Patroni di Barche e Pescatori del Borgo San Giuliano” inviano all’illustrissima Comunità di Rimino, Consiglio generale e Magistrati pro tempore una supplica “con ogni dovuta umiltà”:

“Gli espone essergli necessario, anzi necessità per il loro esercizio la strada che dall’usetto [piccolo uscio] dalla Madonna della Scala per portare li suddetti Oratori, e le loro Pescate transitare, sì di giorno, come di notte alle loro Barche, che con più ossequioso modo li suddetti Oratori supplicano l’innata gentilezza loro [avete capito come ci si rivolge al sindaco?] a volerli concedere tal Commodo, acciò possino con più facilità procacciare il vivere per le loro povere famiglie …”

E chiedevano anche la costruzione di un “Antemurale”, forse per migliorare il guado sul fiume. Il Consiglio generale riunito il 9 aprile 1708 decide:

“Apertura della Porticella vicina alla Chiesa della Madonna della Scala.
Sovra di che fu presa la seguente parte:
Se piace all’Illustrissimo Generale Consiglio di permettere che si tenghi aperta la porticella che è nel Muro vicino, e Contiguo alla Chiesa della Madonna della Scala per commodo dei Pescatori del Borgo di San Giuliano, conché però i medesimi adempino l’obbligo da medesimi espressi con loro memoriale, e con questa espressa condizione, che detta Porticella si possa chiudere ad arbitrio della Comunità e Magistrato pro tempore.”

Trentasei voti a favore e sette contrari, ma dell'”Antemurale” non si era parlato.
Manca in archivio il libro con i verbali dei consigli degli anni 1724 al 1735, l’ampliamento della Porticella, detta “Porta Poruense”, e il cambiamento del suo nome nel 1734 non sono documentati se non nei verbali degli Eletti del Porto. Il 9 gennaio 1734 gli Eletti del Porto incaricano Agostino Costa fattore della Comunità di Rimini di chiedere al Dottore [in leggi] Giovanni Battista Gervasoni Angelini di pagare o restituire i materiali che aveva prelevato dai magazzini del Porto per l’ampliamento della “Porta Portuense”. Ma nella riunione del 19 febbraio 1734 [si veda il registro AP 88 Congregazioni del Porto (1700-1762)] il Costa dice che il Gervasoni gli ha risposto una frase enigmatica:

“Fu parimenti rappresentato, che nell’ultima Congregazione fu data facoltà ad Agostino Costa Fattore d’esigere la Materia, o il di lei prezzo, dal Signor Gervasoni Angelini, della quale esso Signore si servì per la Fabbrica della Porta Portense e che il fattore ha riferito d’aver parlato al detto Signore Gervasoni, e di non avere riportato se non che in Risposta, che esso Signore non sa che cosa sia [quello di cui gli stava chiedendo il fattore].
E perché si è saputo che il medesimo Signor Gervasoni abbi presentemente levato due Piane di Marmo [pietra d’Istria] di piedi 11 di lunghezza [circa m 5,94] per ciascheduna di valore di paoli trenta tre l’una, di ragione di questa Fabrica [del Porto], e si sente al presente da detto Fattore che li mattoni che il Signor Gervasoni ha avuto possono ascendere alla quantità di quattro milla incirca, onde fu dalli suddetti Signori Congregati risoluto, che si facci per mezzo di detto Fattore un altro passaggio col Signor Gervasoni per la restituzione, o pagamento di tutti li suddetti materiali; e nello stesso tempo dirgli di non dovere per l’avvenire prendere alcuna altra volta li materiali di detta Fabrica del Porto…”

E si aggiungano “un carro e mezzo di calcina” e sassi “del Monte di Pesaro” provenienti cioè dall’area feretrana del Marecchia.
Cos’era successo? Giovanni Battista Gervasoni Angelini, nobile di Rimini, era certamente un Eletto alle Fabbriche, incaricato con altri nobili consiglieri di far allargare la “Porta Portense”; di sua iniziativa, pare, aveva prelevato dai magazzini del porto i materiali che gli occorrevano per il lavoro che doveva far eseguire; calce, sassi, mattoni e pietra d’Istria, custoditi per i lavori della muraglia di contenimento del porto. Forte della sua posizione politica e sociale, aveva dato quella risposta arrogante: “non so di cosa stai parlando” a un funzionario comunale costretto ad affrontarlo, per significargli che un par suo non doveva rispondere di niente soprattutto a un dipendente.
Chissà forse era abituato a urlare quando affrontava funzionari comunali fastidiosi. Gli Eletti al Porto lo temono, non osano incontrarlo faccia a faccia e gli rimandano il povero Fattore.
Di questa vicenda perdura un’eco storica che fa del Gervasoni un prepotente e persino un ladro.
Prepotente di sicuro, ma ladro forse no, perché si trattava di prelievo di materiale pubblico per quanto in teoria non disponibile per ricostruire la porta, perché già impegnato nella costruzione dei moli.
Gervasoni è poi rimasto il vincitore effettivo del piccolo conflitto coi colleghi nobili consiglieri e l’apertura si chiama oggi Porta Gervasona mentre doveva chiamarsi Porta Portense.

IL MURO DELLE “TORRICELLE” OPERA DI ROBERTO IL MAGNIFICO 1476

La datazione delle mura e “torricelle” all’età di Roberto presenta qualche difficoltà perché lo spessore relativamente esiguo di mura e torri e l’altezza piuttosto elevata o snella delle torri sembrerebbero essere di epoca trecentesca. Le torri a base poligonale sono di tipica forma malatestiana sigismondea, ma non si accordano con altre forme delle strutture ossidionali di Sigismondo Pandolfo – torri piene, falsabraga o doppia mura, altezza della scarpa – la parte inclinata – che sale sempre di più fino a raggiunge i beccatelli, come nel torrione esterno nel lato Rimini delle mura e rocca di Gradara. Non sembra che Roberto volesse imitare il padre nell’importante attività delle innovazioni ossidionali.

Anche la struttura delle cannoniere con la bocca rettangolare potrebbe essere della metà del quattrocento o anche di tempi precedenti. Dino Palloni la considererebbe tipica delle “classiche cannoniere del ‘400”, anche se non presenta la più comune scudatura e un buco rotondo. Le cannoniere del Borgo hanno un buco d’uscita dei colpi rettangolare con un’apertura semplice delimitata dai mattoni del muro. Ma mentre le torri di Sigismondo Pandolfo non avevano cannoniere in batteria o in sistema, o in posizione per battere di fianco, come si diceva, le mura di Roberto presentano una serie di cannoniere e le “torricelle” hanno tre cannoniere nel piano terra e tre sopra al primo piano e possono tirare di fianco; tipologie che non appaiono nella prima metà del ‘400.
Tante cannoniere o bombardiere, per pezzi da fuoco di piccola o media potenza, richiedevano armi da trasferire a mano o con carrelli e ruote dove si presentava il bisogno.
Infine c’è una prova documentale dell’età delle torricelle: una carta notarile, scoperta da Oreste Delucca, attesta che nel 1476 una torre della cinta esterna del Borgo era ancora in costruzione. Si tratta di una prova documentale indubitabile.

I resti della prima torricella sotto l’abside della chiesa della Madonna della Scala, trasformata in grotta di Lourdes.

Sigismondo Pandolfo non aveva costruito delle difese di rispetto nel borgo, che manteneva i suoi muri facilmente varcabili. Appunto in previsione di un assedio della sua capitale egli e il suo consiglio di guerra dovevano avere deciso che il Borgo fosse sacrificabile, mentre restava ben difeso tutto il lato destro del Marecchia tra la porta di San Giuliano, detta anche porta Bologna, sul ponte romano, e la porta Galliana, mediante una falsabraga, cioè con un doppio muro, quello davanti, che si è conservato, più basso.
Questa è la situazione che si nota nel bassorilievo del Cancro nella cappella dei Pianeti del Tempio malatestiano, opera di Agostino di Duccio. Gli scavi attuali dell’associazione Adarte hanno dimostrato che quella parte del bassorilievo potrebbe essere realistica e rispecchiare una difesa esistente, come abbiamo visto in un altro contributo.
La scelta della falsabraga era in linea con i consigli dei più aggiornati homines docti ad bellum esperti del suo consiglio di guerra. Tra questi si possono individuare due grandi personaggi del mondo artistico e umanistico del ‘400, Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Della falsabraga l’Alberti aveva scritto, spiegandone le ragioni, nella parte dedicata all’architettura di difesa del suo De re aedificatoria.

Sul Marecchia nella parte del Borgo esisteva certamente un muro, ed è l’attuale palinsesto con parti antiche romane, ma non era difeso.
Nel 1469, dopo la morte di Sigismondo Pandolfo, l’esercito pontificio aveva cercato di prendere Rimini mettendola sotto assedio. Occupato, com’era prevedibile, il Borgo malamente difeso, le bocche da fuoco pontificie, collocate all’estremità del ponte romano e lungo la sponda destra del Marecchia, avevano tirato sulla città un migliaio di colpi. Come abbiamo già accennato, un tentativo di entrare in città era stato fatto dall’esercito papale guadando il Marecchia per prendere Rimini a partire dalla spiaggia dalla parte del Borgo di Marina, ma senza successo.
Una battaglia campale con le truppe del duca di Urbino Federico da Montefeltro, una volta tanto dalla parte dei Malatesta, aveva poi sconfitto le truppe pontificie e convinto il papa Paolo II a lasciare Rimini sotto il governo vicariale di Isotta e Roberto Malatesta.
Prima di andarsene, le truppe pontificie bruciarono il Borgo e distrussero le sue mura.
Oreste Delucca, come già anticipato, ha trovato un documento del 1476 con un’indicazione di confine che recita:

“murus dicti Burgi et turionus ad huc non completum“ [in confine “il muro del detto Borgo e il torrione non ancora completato”]

Sette anni dopo la distruzione del 1469 si stava ancora lavorando al muro nuovo del Borgo. Quel tratto di muro con le “torricelle” venne terminato probabilmente dopo il 1482, anno della morte di Roberto, ma senza proseguirlo nelle altre due parti verso Cesena e verso il Marecchia che lambiva il Borgo prima di passare sotto il ponte di Augusto e Tiberio. Dovevano mancare i mezzi e il figlio di Roberto, Pandolfo IV, non era un guerriero o un capitano all’altezza del padre e del nonno. Sua madre Elisabetta Aldrovandini, la “dama” di Roberto, aveva rotto i familiari rapporti con le corti degli Este, dei Gonzaga e degli altri parenti nobili, riempendo la corte del figlio di suoi parenti poveri, avidi e senza esperienza politica e bellica. Questa corte di miserabili aveva deciso la fine della dinastia.
Il progetto di Roberto di fortificare alla moderna il Borgo, cominciato costruendo le torri e tutto il muro del lato verso il mare, doveva comprendere anche le mura della recinzione verso Bologna con la porta e il ponte levatoio sulla via Emilia, e tutta la parte che costeggiava il Marecchia, dove erano resti di mura medievali. Probabilmente il progetto completo comprendeva anche la ristrutturazione delle difese ancora medievali, ed essendo organizzato con moduli ripetuti, possiamo immaginare come dovesse venire il resto. Ma Roberto con tutta probabilità nutriva anche l’ambizione di ingrandire Rimini dalla parte del mare, riprendendo un vecchio progetto della casa Malatesta, come s’é accennato.
I “torrioncelli“ visti dal Tonini ai limiti del Borgo di Marina lasciano pensare ad un proseguimento della cinta con torri del Borgo di San Giuliano al di là del fiume, rasente il muro della chiesa di San Nicolò per poi proseguire fino alle mura della città. Nel Borgo di Marina c’erano gli alberghi per i marinai e i passeggeri delle barche che facevano servizi di linea soprattutto per Venezia. Questi alberghi fin dall’epoca comunale erano chiamati direttamente lupanari e bordelli per la presenza di meretrici, regolamentata persino dagli Statuti comunali. Via del Bordello vecchio e via del Bordello nuovo, ci insegna Delucca, delimitavano due dei tre isolati, e costituivano nell’insieme il Lupanare; il terzo era l’isolato dei frati Celestini.

IL BASTIONE DI CARLO MALATESTA RESTAURATO NEL ‘600

Un altro monumento storico importante delle mura di Marina, oltre alle “Bertesche di Mare”, venne distrutto per l’urbanizzazione della Cooperativa delle Case Operaie nel primo decennio del ‘900. Si trattava del così detto “Bastione” di Carlo Malatesta (1368-1429), compreso nell’area odierna delle via Gambalunga, Roma, Tonti, Oberdan; un rettangolo che sporgeva dalle mura di Marina con due “torrioni”. All’interno delle mura proprio in quell’area esisteva dal ‘200 il Convento dei Domenicani e la chiesa di San Cataldo, che secondo il Vasari aveva la lunetta del suo portale nella facciata con un San Tommaso d’Aquino affrescato da Giotto. Ma il Vasari non è sempre affidabile nella ricognizione dei lavori di Giotto a Rimini. All’esterno delle mura, nel tratto adiacente al loro convento, i Domenicani avevano un grande orto che potevano raggiungere, senza uscire da porta Marina o da porta San Cataldo, tramite una porticina aperta nella mura cittadine col permesso comunale. Concessione pericolosa perché da quella porticina eventuali nemici o pirati potevano entrare facilmente in città. Carlo Malatesta decise di recingere questo orto con mura e due torri agli angoli esterni del rettangolo. I Domenicani dentro questo rettangolo costruirono un secondo chiostro colonnato, più grande di quello vicino alla chiesa.
In una lettera del Bianchi all’Amaduzzi del 17 maggio 1770, conservata nell’Accademia dei Filopatridi di Savignano, abbiamo la notizia di un’epigrafe del 1620 murata sul muro tra i due torrioni del bastione di San Cataldo:

“P.S. Il Signor Abbate Battarra mi ha data una Iscrizione che si ritrova nel Muro tra i due Torrioni fuori della Porta della Marina che rinchiudono il Convento de’ Domenicani, che io gli mostrai, quando fummo insieme a vedere le cose, che sono d’intorno l’antico Porto [il 4 aprile dello stesso anno 1770]; ma che allora non potevamo leggere per essere un fosso frammezzo, che potrà dare a Monsignor Borgia da riporre tra l’altre. Il Signor Battarra dice che non potrà fare bene il disegno delle cose che sono d’intorno all’antico Porto prima che non sieno tagliati i Grani, e le Fave che impediscono l’appressarsi a queste Fabbriche parte intiere, e parte diroccate per prendere le misure, e dice di avere scritto ciò a Monsignor Borgia medesimo”.

Fuori della Porta della Marina di Rimini nel Muro tra’ i due Torrioni che rinchiudono il Convento de’ Domenicani:

TEMPORIS. INIVRIA. DIRVT[VM]
AERE. PVB[LICO]
FERNADVS. NERIVS. I[VRIS]. V[TRIVSQUE]. D[OCTOR].
FRAN[CESCVS]. MARIA. BLANCHELLVS.
ET. BERNARDINVS. PETRONIVS.
PRAEFECTI. CONSTRVERE.
M D C XX

[Il Muro distrutto dall’ingiurie del tempo, a spese pubbliche, Fernando Neri dottore in diritto pubblico ed ecclesiastico, Francesco Maria Bianchelli e Bernardino Petroni, prefetti, fecero costruire nel 1622]”

4 Fine – i precedenti articoli: 1, 2, 3.

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