Il suggestivo viaggio alla scoperta delle mura del III secolo dopo Cristo, costruite circa seicento anni dopo la fondazione di Ariminum, nello stesso momento in cui l'imperatore Aureliano iniziava la costruzione delle grandi mura di Roma. Toccando il vicolo Mastini, il palazzo Agolanti-Pedrocca, il giardino Ferrari, la domus del chirurgo, l'ex ospedale civile e palazzo Simbeni.
Dai pressi della uscita della Fossa Patara, dalle mura parte il disordinato muro imperiale a mare di Ariminum – soprattutto nel percorso e parzialmente nella struttura – che, orlando obliquamente una sorta di cratere o bassura dello spazio cittadino, arriva fino al fiume. Sono le seconde mura romane del III secolo dopo Cristo, costruite circa seicento anni dopo la fondazione di Ariminum nello stesso momento in cui l’imperatore Aureliano (imperatore dal 270 al 275 d.C.), come gli archeologi a partire dal Mansuelli argomentano, iniziava la costruzione delle grandi mura di Roma, perché i barbari erano diventati una minaccia reale.
IL VICOLO MASTINI
Il muro imperiale appare nella città odierna nel vicolo Mastini. Il nome del vicolo è già attestato in antico regime. Appartiene ad una famiglia originaria dall’alta valle del Marecchia, da Pennabilli per la precisione, che pretendeva di discendere dal Mastin vecchio, il nome che Dante dà a Malatesta da Verucchio (1212-1312) il capostipite della famiglia sovrana di Rimini (Inferno XXVII, 46), e che nello stemma troncato porta in alto un mezzo mastino rampante contro un albero, e in basso la scacchiera malatestiana.
Il primo tratto delle mura del III secolo d.C. taglia il vicolo Mastini nella parte alta, o meglio tagliava dato che sono rimaste due sezioni, la prima, a sinistra di chi scende il vicolo, compresa nel muro di una casa, parzialmente rivestita di intonaco; anche la seconda, poco più in basso a destra è compresa nel muro di una casa. Si veda sul manto stradale lo strampalato tentativo di suggerire con una traccia sul pavimento stradale una continuità del primo muro che taglierebbe la strada normalmente, quando il ‘seguito’ è ben visibile più in basso. Ci avessero fatto caso! Gli ‘esperti’ dell’amministrazione comunale hanno anche battezzato “Via dell’orologio guasto” la “piazzetta Agabiti”. Non ne beccano una.
LE MURA IMPERIALI NEL PALAZZO AGOLANTI EX BANCA D’ITALIA
Una gran parte della muraglia, alta quanto un pian terreno, per più di dieci metri di lunghezza è compresa nel rinnovato palazzo Agolanti-Pedrocca già Banca d’Italia, poi della Carim e oggi del Crédit Agricole. La facciata nel suo punto concavo rivela la presenza retrostante del muro antico.
Il palazzo ristrutturato nel 1912 da Gaspare Rastelli – l’autore della ricostruzione neomedievale dell’Arengo – recentemente è stato restaurato e nuovamente ristrutturato dallo studio architettonico Cumo Mori Roversi di Rimini. Dal 2007 al 2012 un gruppo di archeologi ha condotto scavi nell’area intorno al muro scoprendo una piccola Pompei di stratificazioni, di fondamenta di diversi secoli da quelli repubblicani a quelli imperiali, con edifici da una parte, verso marina, e dall’altra, verso città, con una strada di basoli parallela al muro entro l’area cittadina. Il muro medio-imperiale studiato nelle sue varie fasi appare perfettamente costruito, con mattoni sesquipedali o manubriati.
Basandosi su “un tratto di fondazione” di pietroni di “arenaria” ossia della roccia del tipo di quella usata per porta Montanara, gli autori, da un’ipotesi discutibile ma corretta, arrivano alla ‘certezza’ che il muro tardoimperiale fosse impostato sui resti di un muro di recinzione urbana dell’epoca di Lucio Cornelio Silla.
Un disegno di ricostruzione sviluppa il “tratto di fondazione” in un alto muro merlato con porta a pochi metri dal mare!
A fondamento di questa interpretazione tutt’altro che certa – certamente, se lo fosse, quasi tutte le mie ipotesi scomparirebbero; ma sono sereno – c’è anche una fondazione geologica premessa alle vicende archeologiche piuttosto statica e generica: gli autori impostano le loro ricostruzioni sulla duna o falesia “pre-protostorica”, visibile anche a Rimini e nelle aree da Bellaria al Cimitero e da Riccione verso Cattolica, la quale peraltro nei suoi diversi millenni di esistenza non sarà rimasta sempre come la dipingono nella veduta suddetta, intatta con il mare ai suoi piedi. Invece anche un profano come chi scrive si accorge che c’è stato, nella parte a mare di Rimini, ai lati del fiume Marecchia, un fenomeno di subsidenza, iniziato dopo al costruzione del ponte, che sarebbe desiderabile che venisse studiato soprattutto dai geologi, una volta che si siano liberati – anche loro ci sono cascati – dal falso secondo porto romano, come già detto, invenzione barocca di Cesare Clementini.
IL FENOMENO DELLA SUBSIDENZA DAL BORGO SAN GIULIANO ALL’USCITA DELLA FOSSA PATARA
Diranno che non sono un addetto ai lavori e che non capisco niente di geologia e di idrologia. E’ vero, non sono un addetto ai lavori di archeologia, di geologia e di idrologia, ma allora gli addetti ai lavori come spiegano a un cittadino qualsiasi il fenomeno dell’abbassamento di quasi 4 metri del ponte di Augusto e Tiberio? Dalle iscrizioni sappiamo che il ponte venne fondato da Augusto nel 14 e finito da Tiberio nel 21 d. C. Abbiamo visto e fotografato i suoi piloni negli anni ’70, apparsi per la prima volta dopo quasi due millenni, con gli archi che sorgono su piloni a conci sbozzati a forma di nave, con la prora puntata verso monte nella direzione da cui proveniva la corrente, e con la poppa verso il mare. Negli anni ’70 quando tolsero circa 4 metri di ghiaia dal greto del fiume il ponte tirò qualche crepa di assestamento. Si scatenò il terrore e il timore che il ponte crollasse. Vennero gettate al posto della ghiaia delle “piastre intirantate” ossia dei blocchi di cemento che si saldavano ai piloni, ma che si sarebbero spezzati in caso di terremoto. Messi in luce i piloni e la parte in basso del muro del Borgo, abbiamo anche visto e fotografato una possibile banchina dell’antico porto romano vero, formata di belle pietre d’Istria sagomate che partiva da sotto l’ultima arcata lato Borgo verso mare, con un possibile frammento di una pietra per legare le barche.
Questa ‘banchina’, oltre la quale si doveva vedere la rampa del ponte, era stata aumentata da un muro di pietre dello stesso tipo di più di un metro; il quale muro a sua volta era stato la base di un muro regolare di mattoni manubriati. A chi scrive questi tre muri sembrarono segnare almeno tre fasi di costruzioni per rimediare l’abbassamento progressivo del fiume in epoca di poco posteriore alla sua inaugurazione.
Si potrebbe in prima battuta datare l’inizio della subsidenza a poco dopo il 21 d.C. (secondo muro o possibile alzamento della banchina) e la sua prosecuzione fino ad epoca imperiale avanzata (muro di mattoni sesquipedali di contenimento dell’acqua) e ad epoca medievale e moderna (muro medievale in cotto fino all’altezza attuale con l’idrometro del tardo ottocento).
Ma qualcuno potrebbe affermare che i tre muri sono in realtà un unico muro imperiale… D’accordo, se fosse possibile dimostrarlo, ma questo ipotetico unico muro era pur stato eretto per contenere l’acqua che stava sommergendo il ponte. Il ponte stava calando in acqua e l’acqua lo ha sommerso fino all’imposta degli archi. Questi sono o non sono fatti?
La subsidenza è un fenomeno visibile o no? Poi ci saranno da valutare sia quanto ha inciso su questo fenomeno il crescere delle superfici delle città e quello ben conosciuto dell’aumento dell’acqua del mare. Perché, se quanto ‘ragionato’ sopra è esatto, si continua a rappresentare il ponte romano com’è oggi?
IL PICCOLO TRATTO DI MURA ROMANE IMPERIALI NEL GIARDINO FERRARI DI FRONTE AL CREDIT AGRICOLE GIA’ CARIM-CASSA DI RISPARMIO DI RIMINI
Nell’area dell’attuale giardino Ferrari vi erano diversi edifici storici, l’area che al momento ci interessa era occupata in parte dal palazzo Atti, la casa della giovanissima Isotta, quando Sigismondo Pandolfo Malatesta la prese come sua amante, e dalla chiesa di S. Tommaso. Il signore di Rimini si trasferì, dal palazzo del Cimiero – attuale condominio Fabbri – nella casa degli Atti che poi passò ai Malatesta e venne abitata da Pandolfo IV, detto Pandolfaccio, l’ultimo dei Malatesta, che nel 1503 vendette Rimini ai Veneziani. Il palazzo Atti-Malatesta servì per qualche tempo come residenza dei governatori pontifici e infine venne usato come collegio femminile delle Orsoline Celibate un ordine di suore che educava le bambine di buona famiglia. Aveva una torre sulla quale era cresciuto un mandorlo. Il mandorlo aveva dato il nome ad una via – nella prosecuzione tra via Tempio Malatestiano e via Tomini – soppressa pochi anni fa.
Con l’arrivo di Napoleone gli ordini religiosi erano stati soppressi e i loro beni venduti. Il santarcangiolese ex conte Pio Baldini, padre di Alessandro e Ruggero che con Raffaele Tintori nel 1843 avrebbero fondato lo Stabilimento dei Bagni, nel 1812 aveva acquistato il collegio delle Orsoline Celibate e tutta l’area verso via Giovanni XXIII dove esisteva il convento e la chiesa di Santa Maria Maddalena, per le prostitute redente, poi dette Clarisse del Cuor di Gesù. In seguito alla terza spoliazione dei beni Baldini – uno dei grandi e misteriosi tracolli finanziari del secolo XIX -, la Cassa di Risparmio di Rimini acquistò nel 1883 quasi tutta l’area dell’attuale giardino Ferrari offrendola al Comune. Si parlò dapprima di costruire un teatro arena ma poi nel 1894 il Consiglio Comunale decise la costruzione di un “pubblico piazzale giardino”. Il “grande clinico” bolognese Augusto Murri, che aveva un villino a Marina, approvò: la decisione aveva creato “un nuovo polmone dato alla città”.
La chiesa di San Tommaso sorgeva circa dove oggi c’è il monumento della prima guerra mondiale, ed era nota perché citata in una lettera di papa Gregorio Magno (560-604); venne distrutta quando si fecero i lavori per la nuova strada parallela a via del mandorlo e per la terza monumentale sede della Cassa di Risparmio di Rimini, inaugurata nel 1912 su disegno di Paolito Somazzi (1873-1914), autore del Grand Hotel nel 1906.
“Fermi disgraziati, state distruggendo un muro romano” avrebbe urlato un addetto ai lavori, che passava da quelle parti, vedendo i muratori prendere a mazzate il muro romano apparso sotto le murature moderne. “Ah sì – avrebbe risposto un simpatico muratore – che sia romano lo capiamo da come parla?” L’aneddoto veniva raccontato da Enzo Pruccoli in dialetto riminese; non è pane per i miei denti, sono sicuro che qualcuno sa tradurlo.
IL TRATTO DI MURO IMPERIALE A RIDOSSO DELLA DOMUS DEL CHIRURGO
La leggenda urbana narra che nel 1989, un piccolo albero venne tirato fuori dalla terra, per liberare un’area del giardino Ferrari dove fare un prato per i giochi dei bambini. Nelle radici della pianta era inviluppata una scatola di bronzo con dentro strumenti chirurgici romani. Approfondito lo scavo, si rinvenne il cuore del mosaico più bello di quella che si sarebbe chiamata la domus del chirurgo. Era l’immagine di un giovane che suonava la cetra. Venne scambiato dapprima per Apollo, poi si capì che era Orfeo, nella stessa scena del suonatore tra le bestie e le belve mansuete che cominciava ad essere dipinta nelle catacombe cristiane di Roma. Come ricordò chi scrive, che a quel tempo pubblicava sul Carlino ed era impegnato in una campagna per aprire un cantiere archeologico.
In molti avevamo ricordato all’amministrazione comunale che già il Tonini aveva segnalato la presenza di mosaici usati come pavimenti nelle buche da grano nell’ex convento del Cuor di Gesù. Lo splendore dei mosaici e la rarità e importanza dei reperti convinse l’amministrazione comunale a rivedere i suoi progetti di rinnovamento del giardino Ferrari.
Nel 1888 erano iniziate le demolizioni dell’ex convento del Cuor di Gesù. Carlo Tonini, bibliotecario e “ispettore onorario agli scavi e monumenti”, si era accorto del tratto cospicuo di mura imperiali che stavano emergendo e aveva scritto alla Direzione Generale degli Scavi e Antichità e alla Giunta comunale per la conservazione di quel muro romano di Ariminum. La Giunta rispose che non aveva intenzione conservare il muro segnalato, perché ormai era stato consegnato all’imprenditore delle demolizioni e perché a Rimini vi erano “altri simili ruderi”, visto uno visti tutti. Così, “il rudere dell’antica cinta è stato distrutto a mezzo di mine.” Ma poi l’anno seguente, dei mosaici erano apparsi dalla parte di Via del Mandorlo e il Comune, amministrato da una nuova Giunta, aveva finanziato una piccola ricognizione in attesa di un adeguato contributo governativo, che però non venne erogato, e si dovette aspettare cento anni.
Per avere le notizie degli scavi e sulle problematiche archeologiche e storiche della domus del Chirurgo – che i Romani avrebbero chiamato Taberna Medicina o solo Medicina – in particolare sulla vicenda della incursione forse di legionari ubbidienti a diversi imperatori, che lasciarono parte delle loro armi sui pavimenti della domus e sull’incendio i cui segni ed effetti sono stati ritrovati anche nel palazzo dell’ex Banca d’Italia, si vedano su Internet le numerose pubblicazioni di Jacopo Ortalli, di Lorenzo Braccesi e di altri archeologi.
I TRATTI DI MURA NEI SOTTERRANEI DELL’EX OSPEDALE CIVILE, GIA’ COLLEGIO DEI GESUITI E ORA MUSEO DELLA CITTA’
L’isolato dei Gesuiti si organizza a partire dai primi decenni del ‘600 – 1629 – appoggiato e intorno alla casa del “fondatore” Francesco Rigazzi che aveva donato i suoi beni ai padri di S. Ignazio perché fondassero a Rimini un collegio. Le fasi della contrastata crescita dell’organizzazione pedagogica e religiosa si erano sviluppate con una chiesa provvisoria e poi con un oratorio degli artigiani e di seguito un oratorio dei nobili, tuttora esistenti. Nel 1718 era stata iniziata una chiesa per la quale non erano mancati progetti romani grandiosi, per poi essere affidata nella costruzione a un capomastro di origine ticinese, Domenico Trifogli, per la struttura, e infine per gli ornamenti in stucco a Francesco Bibiena o al suo allievo lorenese Francesco Chamant. Nel 1739, ultimata la chiesa, era stato chiamato l’architetto bolognese Alfonso Torreggiani per il progetto del collegio. Nello scavo per i fondamenti del collegio erano state trovate le mura imperiali di Rimini e una splendida epigrafe romana usata come materiale da costruzione.
Val la pena di conoscerla per avere un’idea di un notabile militare e pubblico romano di alto livello, residente a Rimini. Nella trascrizione: tra parentesi tonde l’integrazione delle abbreviazioni espresse con lettere minuscole, tra parentesi quadrate l’integrazione delle parti mancanti:
Questo il testo dell’epigrafe:
“C(aio) NONIO / C(ai) F(ilio) AN(iensi) CAEPIAN[O] / EQVO PUB(lico) EX QVINQVE / DECVRIS IVDICV[M] / PRAEF(ecto) COH(ortis) III BRITT[O] / NVM VETERANO[RVM] / EQVITATAE TRIB(vno) LEG(ionis) AD[IV] / TRICIS PIAE FIDELIS PRA[EF(ecto)] / ALAE / AVSTVRVM PRAEPOS[ITO] / NVMERI EQVITVM ELECTORV[M] /EX ILLYRICO / C(aius)VALERIVS SATVRNINVS DE[Cvrio)] / ALAE ASTVRVM / PRAEF(ecto) OPTIM[O]
L(ocvs) D(atvs) D(ecreto) D(ecvrionvm)”
A Gaio Nonio Cepiano, figlio di Gaio, della tribù Aniense, dell’ordine dei cavalieri e giudice, ufficiale superiore della legione Adiutrice Pia Fedele, ufficiale superiore del primo reparto degli Asturi, preposto al distaccamento speciale di cavalieri formato da reparti dell’Illiria.
Gaio Valerio Saturnino sottufficiale del reparto d’Asturi (dedicò) il monumento in onore del proprio ottimo superiore. L’area necessaria per il sepolcro è stata donata dal Consiglio della Città.]
Quando Ariminum, fondata come colonia latina nel 268 avanti Cristo, probabilmente nel 90 avanti Cristo diventò municipio romano, i suoi cittadini furono aggregati alla tribù Aniense di Roma. Nelle epigrafi il nome della tribù significava che il personaggio nominato era un cittadino romano.
Gaio Nonio Cepiano era un cittadino romano riminese che aveva comandato truppe dell’Illiria.
L’Illiria era un territorio politico che si protendeva sull’Adriatico dalla Croazia all’Albania. La sua conquista non era terminata ai tempi di Augusto (63 a.C. – 14 d.C.), che soggiornò a Rimini nel 9 a.C., nella fase più cruenta delle guerre illiriche, iniziata nel 13 avanti Cristo, per seguire da vicino il comandante dell’esercito romano Tiberio Claudio Nerone (42 a.C– 37 d.C.), il figlio di primo letto di sua moglie Livia Drusilla, che aveva adottato e che poi gli succederà come imperatore.
LE MURA NEL GIARDINO DEL MUSEO DI VIA LUIGI TONINI
Tra la palazzina già reparto infettivi, nel recinto del museo, e l’area del Canevone dei Veneziani, in via Luigi Tonini, un palinsesto edilizio dei secoli XIV e XV, donato da un anonimo riminese all’Abbazia di S.Maria della Misericordia o di Valverde di Venezia – sull’identificazione dell’anonimo ho preso due cantonate con relative giuste bacchettate di Oreste Delucca -, si possono vedere i resti delle mura imperiali che sono in linea con quelli della Domus del chirurgo e quelli nei sotterranei del museo. Marcello Cartoceti sospetta l’esistenza di una torre nell’area della palazzina ex infettivi. La quale palazzina infettivi del 1933 è interessante per la storia architettonica di Rimini perché il geometra Giulio Ruffi aveva disegnato un primo progetto, con bugnato settecentesco e poi subito dopo un progetto in stile “moderno”. Questo doppio progetto segna il momento in cui l’architettura “moderna” viene adottata dai notabili fascisti a Rimini.
Il muro è visibile di taglio nella recinzione del cortile del museo in discesa verso la piazzetta Ducale.
LA TORRE D’ANGOLO IN PALAZZO SIMBENI
Negli anni passati è stata trovata nei sotterranei e nel primo piano di palazzo Simbeni – del tardo cinquecento o dei primi del ‘600, abitato nell’800 da Luigi Tonini – la continuazione del muro imperiale innestato in una torre, in parte conservata, dalla quale parte il muro parallelo al fiume verso il ponte romano. Scrive Jacopo Ortalli:
“Nell’insieme dei resti di piazzetta Ducale è dunque possibile riconoscere l’originaria presenza di una torre a pianta trapezoidale, i cui lati maggiori potevano aggirarsi intorno agli 8 m di larghezza. Il bastione si situava proprio nel punto in cui le mura, giungendo da levante, con una repentina variazione di tracciato si indirizzavano a sud-ovest. La constatazione di tale rotazione ad angolo retto della muratura costituisce indubbiamente un importante elemento documentario; essa infatti fornisce per la prima volta una concreta traccia dell’andamento planimetrico dell’estremità nordoccidentale della conta tardoimperiale e del rapporto del suo lato di ponente con il corso del Marecchia: questione di antica tipografia riminese tuttora irrisolta.”
Sulle mura antiche e medievali di Rimini dal lato del Marecchia la questione è complessa quasi quanto quella della situazione a mare. Si aspettano interventi chiarificatori di Marcello Cartoceti e dei suoi collaboratori in merito.
Cristian Tassinari, Martina Frioli, Renata Curina, Pone murum evoluzione di un quartiere al confine tra la città e il mare. Lo scavo archeologico nel Palazzo Agolanti-Pedrocca a Rimini, Soprintendenza Beni Archeologici Emilia Romagna, Minerva, Bologna, 2013.
Giovanni Rimondini, “A pubblico e proprio decoro” Interventi urbanistici e committenza edilizia della Cassa di Risparmio di Rimini tra Otto e Novecento, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1990.
Giovanni Rimondini, La scoperta del “tesoro” di piazza Ferrari, in “Ariminum”, anno XXII n.1 gennaio-febbraio 2015.
Giovanni Rimondini, La chiesa “nuova” dei Gesuiti a Rimini, in “Romagna arte e storia” 1982 5.
Archivio di Stato di Rimini, Archivio Storico Comunale, sezione moderna, b.160041. La data del disegno 17 VII 1933.
Jacopo Ortalli, Nuove fonti cit., pp.521-522.
COMMENTI