L’anfiteatro che Rimini ha buttato via

L’anfiteatro che Rimini ha buttato via

Nuove fotografie per ritornare sulla stessa triste storia. Il grande monumento sepolto e bistrattato.

Pianta dell’anfiteatro di Ariminum. Le freccette numerate indicano le aree fotografate che troverete in questo articolo: 1) le porte del secondo anello interno; 2) i resti del primo piano del muro esterno con le arcate connesse da una trabeazione orizzontale intervallate dalle paraste doriche o toscane; 3) il condotto fognario servito da un acquedotto funzionante, forse per le naumachie o giochi navali, scavato negli anni ’30, oggi chiuso.

BREVE STORIA DELL’ANFITEATRO ROMANO DI RIMINI DAL III SECOLO D.C. A QUESTA MATTINA

Una città civile e fedele – nel bene del passato – alle sue radici storiche si rallegra di avere un anfiteatro romano, monumento peraltro anche inquietante degli spettacoli di morte violenta, unico sopravvissuto in Romagna dove ogni municipium ne aveva uno. E i Riminesi, non pochi, che amano la loro città e sono orgogliosi dei suoi monumenti (in mille nel 2000 abbracciarono il teatro e ottennero da Vittorio Sgarbi (1952) la sua ricostruzione filologica). Ma quasi tutti i sindaci dalla Liberazione hanno disprezzato il Patrimonio culturale di Rimini, a cominciare dal buon socialista Arturo Clari (1862-1951) – vedi sotto – e dall’avventuroso comunista Cesare Bianchini (1914-2001) che distrusse con le sue mani il Kursaal e che voleva demolire il Tempio Malatestiano per venderne i pezzi agli Americani, secondo la testimonianza di Bernard Berenson (1865-1969), fino agli ultimi Andrea Gnassi (1969) che ha cementato il fossato dell’unico castello in Italia arrivatoci di Filippo Brunelleschi (1377-1448), premiato, persino, a Sassocorvaro per “il recupero dei gioielli culturali e della memoria” cioè esattamente per quello che non ha fatto, o tempora o mores non c’è limite al paradosso bugiardo anche nelle Marche, e il suo fedele successore Jamil Sadegholvaad (1972) che, come il Califfo Harun al Rashid gira per Rimini in cerca di problemi da risolvere: “La prima cosa sarà di girare la città e vedere di cosa ha bisogno” [così, dopo l’elezione, il primo proposito da Mille e una notte del neosindaco, vedi il Carlino 4.10.2021], e che, in qualità di assessore alla cultura, ha subito cementato una rampa del ponte di Augusto (63 prima di Cristo – 14 dopo Cristo) e Tiberio (42 avanti Cristo – 37 dopo Cristo). Ma non ci sono a Rimini solo gli amministratori a manomettere e dilapidare il nostro Patrimonio culturale, nell’impresa eccellono da sempre gli imprenditori dell’edilizia, i ben noti “riminizzatori”, un paio si sono vantati con me per avere distrutto mosaici nei loro cantieri. Avete buttato dei milioni, gli ho risposto, pataca, potevate staccarli e venderli. Partiamo da un imprenditore che ebbe indubbie qualità politiche, sociali ed economiche dal quale comincia la storia novecentesca dell’Anfiteatro romano.

1906 LA SOCIETÀ ANONIMA COOPERATIVA DI CASE POPOLARI TENTA UNA LOTTIZZAZIONE DELL’ANFITEATRO E POI LO REGALA AL COMUNE DI RIMINI

Riccardo Ravegnani (1864-1941) dal 1906 presidente della Società Anonima Cooperativa di Case Popolari, aveva cominciato l’urbanizzazione del Quartiere Pataro, senza un minimo di riguardo alle preesistenze storiche – le mura e le torri malatestiane -, e l’area dell’Anfiteatro era stata destinata ad una lottizzazione di villette. Il triestino Giuseppe Gerola (1891-1938), Soprintendente ai Monumenti di Ravenna, venne a Rimini per vedere l’area dell’Anfiteatro, si accorse anche per primo delle mura romane tra l’Anfiteatro e l’uscita antica della fossa Patara – dove da pochi mesi c’è una birreria – con le due torri romane una intera e l’altra scomparsa ma ha lasciato una doppia ghiera di mattoni manubriati sul muro adiacente alla birreria. Ovviamente proibì la lottizzazione delle villette popolari.
Ne nacque un conflitto tra l’associazione di Ravegnani e le istituzioni dello Stato preposte alla tutela del Patrimonio culturale, finché negli anni ’30, sotto la podesteria di Pietro Palloni (1876-1956), Ravegnani regalò l’area ovale dell’Anfiteatro al Comune di Rimini.
L’area venne destinata a giardino e a parco archeologico con un programma annuale di scavi che in effetti cominciarono subito e per qualche anno.

GLI SCAVI DI LUIGI TONINI 1848

Il primo a scavare l’Anfiteatro fu Luigi Tonini (1807-1874) che rilevò e pubblicò – nel suo primo volume della storia di Rimini del 1848 – con proprie incisioni i disegni degli scavi interessanti la parte dell’Anfiteatro esterna alle mura romane. Mise in luce un quarto circa dell’edificio ricostruendo la pianta complessiva per la struttura simmetrica tipica degli anfiteatri romani.
Un Soprintendente architetto, dopo che Matteo Renzi (1975) aveva soppresso le Sovrintendenze archeologiche per vendicarsi di un rifiuto ricevuto dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici di Firenze, ha di recente affermato che l’anfiteatro è stato completamente scavato, rivelando così di non avere un’idea storicamente fondata del monumento.

DAL DOPOGUERRA AD OGGI

Il centro storico di Rimini era un cumulo di macerie nell’immediato dopoguerra, e il sindaco socialista Arturo Clari, nominato dagli Alleati nell’ottobre del 1944, in carica fino al novembre del 1946 – quando fu eletto il giovane comunista Cesare Bianchini -, per avere aiuti di qualsiasi genere si rivolse ai partiti socialisti europei. Rispose una società filantropica svizzera, il Soccorso Operaio Svizzero di Lugano, che regalò alla città una serie di baracche di legno e in parte il personale docente – direttrice Margherita Zoebeli (1912-1996), politica e pedagogista innovativa -. Il sindaco Clari volle che le baracche sorgessero dentro l’area a giardino dell’Anfiteatro. Contrari furono tutti i Soprintendenti archeologici – come abbiamo documentato su Rimini 2.0 -, ma il sindaco ricorse alle superiori autorità romane che decisero, sulla base di menzogne allegate alla richiesta – l’anfiteatro era stato interamente scavato, e non c’era niente sotto, anzi lo avevano riempito con le macerie della guerra, due ‘balle’ che qualche sprovveduto ripete ancora – una parziale concessione purché non si facessero scavi per le fondazioni di edifici in muratura.
Invece si costruirono anche edifici in mattoni e a quanto sembra senza i permessi necessari.

LE IMMAGINI DEGLI SCAVI DEGLI ANNI ’30 DEL ‘900

Le immagini in bianco e nero sono relative agli scavi degli anni ’30. Le abbiamo raccolte in tre gruppi, tralasciandone molte altre, il primo e il secondo gruppo sono relativi alle strutture costruttive e a quanto rimane della definizione degli ordini del recinto esterno, il terzo alla conduttura d’acqua lungo l’orlo dell’arena.

I RESTI DELLE STRUTTURE ARCHITETTONICHE CLASSICHE, LE SCALE E I LOCALI INFERIORI

Una porta del muro interno delle tante che portavano nei locali sotto le scalinate, e le scale per salire ai diversi settori dei sedili secondo l’ordine sociale e politico che prevedeva per i notabili i posti più vicini all’arena.

I RESTI DEGLI ORDINI ESTERNI, UN ACCESSO AI LOCALI SOTTO LE SCALE E LE SCALE DELLE GRADINATE

L’Anfiteatro sporgeva dalle mura regolari di Ariminum del III secolo prima di Cristo per un terzo circa; queste mura sono in parte visibili con una torre ancora quasi intera e il doppio arco d’ingresso sulle mura di una seconda torre, vicina alla rientranza dell’uscita della fossa Patara e oggi alla birreria – vedi sotto -.
Le prime invasioni barbariche nel secolo III dopo Cristo costrinsero gli abitanti di Ariminum a riparare le mura a mare, violate dalle arcate dell’anfiteatro e non tanto prima, secondo una congettura alla quale resto fedele, per un disastroso fenomeno di subsidenza che aveva abbassato il terreno di circa 4 metri nella parte nord ovest della città, dell’area del ponte e del futuro Borgo S. Giuliano, e che aveva eliminato le mura della città verso il mare e verso il fiume.
L’area della subsidenza è delimitata dall’orlo su cui vennero impostate le mura romane del III secolo, del tempo dell’imperatore Aureliano (214-275 dopo Cristo). Il muro esterno dell’anfiteatro con gli archi venne chiuso con murature, come si vede, e forse anche con terra calcata nei corridoi.

UN CAPITELLO TOSCANO O DORICO SPECIALE DEL PRIMO PIANO DELL’ANFITEATRO ESTERNO

Il capitello dorico o toscano del pian terreno dell’anfiteatro, sul quale sorgeva un secondo ordine probabilmente ionico, secondo la successione canonica degli ordini classici, come nel Colosseo, ha una forma speciale. Dall’alto: sotto diviso in sei parti orizzontali: a) l’abaco tradizionale, o tavoletta, e sotto non c’è l’echino o parte convessa simile a un riccio di mare, ma cinque stretti listelli doppi di dimensioni che calano fino al primo, un collarino che presenta una tavoletta sotto la quale si trova una piccola gola. Vedendo questo capitello il veneziano architetto e proto, ossia ingegnere delle acque della laguna, Tommaso Temanza (1705-1779), alla fine degli anni ’40 del ‘700, accompagnato dal dottor Giovanni Bianchi – o Janus Plancus – (1693-1775) a visitare i monumenti romani di Rimini per il libro che stava preparando, Le antichità di Rimino, turbato da quella frantumazione orizzontale del capitello più ‘maschio’ dell’architettura romana, lo attribuì ai tempi della decadenza dell’arte, alla fine dell’impero d’Occidente.
Non possiamo essere d’accordo, l’anfiteatro è dei tempi dell’imperatore Adriano (76-138 dopo Cristo), le anomalie rispetto al modello classico vanno spiegate in altro modo, come il risultato di un architetto provinciale che amava innovare senza tener conto del classicismo, forse un celta venuto dalla Gallia, dove simili interpretazioni del linguaggio classico erano frequenti?
La guerra ha cancellato questo capitello.

Un’altra immagine di architettura classica interessante e non più esistente è quello di un arco del primo piano esterno, che qui appare regolarmente murato per diventare parte del muro di difesa, nell’immagine attuale si percepisce una muratura quasi tumultuaria con le pietre dei sedili dell’anfiteatro, alcune col numero del posto.

L’IMPIANTO IDRAULICO FUNZIONANTE

Gli scavi degli anni ’30 portarono in luce una canaletta che gira intorno all’ovale dell’arena, nella quale sfociavano le acque delle fontane e quelle luride delle latrine ordinatamente distribuite nei piani superiori. La cosa sorprendente però consiste nel fatto che questa canaletta praticabile era piena d’acqua. Questo fenomeno ben strano si spiegherebbe con un allacciamento ancora funzionante con una qualche sorgente sul Covignano o anche forse più vicina, magari sulle rive dell’Ausa. L’acqua certamente serviva a ricevere le acque luride dell’anfiteatro, ma forse anche, come nel primo impianto dell’arena del Colosseo, la canaletta praticabile fa parte di un impianto per riempire d’acqua l’arena da poter fare le battaglie navali, le naumachie. Scavando sotto l’arena si potranno trovare il canale centrale e la riserva d’acqua, come nell’arena di Verona.

LE DUE TORRI E IL TELO DI MURA ROMANI

In Ariminum di Guido Achille Mansuelli (1916-2001) del 1941, la parte di Rimini verso il mare e lungo il fiume erano descritte senza mura. Nel 1910 Giuseppe Gerola aveva notato che il telo di mura tra l’anfiteatro e l’uscita della fossa Patara era romano con due torri, le quali erano situate al termine di due cardini – cardines – della forma uribis o piano urbano di Ariminum.
Il Gerola ne aveva dato comunicazione alla Soprintendenza archeologica di Bologna, ma Mansuelli non doveva aver visto la lettera.

L’attacco delle mura romane all’anfiteatro, palinsesto dal III secolo a.C. al III d.C. Anche qui nella parte più recente sono state usate pietre dei sedili dell’anfiteatro.

Queste mura sono ‘palinsesti di diverse epoche a partire dal 268 prima di Cristo di tre metri c. di spessore, fondazione di Ariminum, interrotte dalla costruzione dell’anfiteatro al tempo dell’imperatore Adriano, nel III secolo d.C., una sua moneta è stata trovata nelle strutture murarie dell’anfiteatro; restaurate nello stesso secolo al tempo dell’imperatore Aureliano quando vennero costruite le mura di spessore di 1,50 metri c., dall’uscita della fossa Patara alla porta esistente nell’attuale piazzetta Simbeni, esattamente dentro il palazzo Simbeni-Tonini. Sono state sopraelevate e risarcite con teli di mattoni dai Malatesta nel secolo XIV, quando con materiale litico ancora esistente nell’anfiteatro fondarono i muri mirabiles di mattoni e le torri che si inoltravano dalle mura in mare per la difesa della spiaggia.
Poi vennero ancora restaurate nel secolo XVI, XVII e XVIII. Sono state sbrecciate per farci stare le macchine dei residenti della via verso Rimini.

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