Pletone, tu vuo’ fa’ l’americano

Pletone, tu vuo’ fa’ l’americano

I locali espertoni malatestiani hanno dedicato molto impegno a confutare le tesi di Riccardo Magnani (magari la stessa dedizione l'avessero riservata ai cento buchi gnassiani che perforeranno le mura medievali-malatestiane restaurate, come ricorda un’epigrafe, nel 1751!). Ma c'è l'America o no alle spalle di Sigismondo? Immaginiamo che, domani, un austriaco di nome Walter Seitter si presenti da Pulini...

Grazie al maestro bizantino la mappa del pensiero intellettuale, come quelle della storia e della geografia non sarebbero più state eguali a prima. È un lascito che l’Occidente non può disconoscere.
(Moreno Neri, «Introduzione all’Autore» in Pletone / Trattato delle virtù, Bompiani Testi a fronte, Milano 2010, pp. 285 s.)

Nella scia di polemiche, si fa per dire, seguita al primo articolo e al secondo di Davide Brullo sull’affaire Riccardo Magnani, non so quanto sia buona l’idea di intervenire, data la mia eccellente condizione per non essere compreso o per essere malinteso. Ho affermato che è stato un contraddittorio per modo di dire, perché, se non fosse per Brullo, non ne saremmo informati, essendo il tutto relegato al confortevole cantuccio del proprio profilo fb dove si può far la voce a volte indignata e a volte dolente, a seconda della bisogna, con chi è più debole e ospite ma mai con chi è potente e fa pastrocchi, per giunta col sostegno degli «amici» e sicuri di avere solo qualche rara voce dissonante. Ma tant’è: questi sono, nei nostri tempi oscuri, i cuor di leone della tastiera. «Futile polemica» si è detto. Ma è stata affrontata dai nostri improvvisati espertoni malatestiani di complemento con acribia degna di miglior causa. Avessero dedicato lo stesso spazio e impegno, per il delitto di lesa maestà pierfrancescana-malatestiana perpetrato dal Magnani, ai cento buchi gnassiani che perforeranno le mura medievali-malatestiane restaurate, come ricorda un’epigrafe, nel 1751!

Piero della Francesca, Sigismondo Pandolfo Malatesta di fronte a San Sigismondo

Pubblicamente, sono poi seguiti i dotti contributi, attinenti al tema, di Oreste Delucca e di Giovanni Rimondini, entrambi sotto alcuni aspetti opinabili, ma che hanno certamente reso più viva e stimolante la discussione intorno alla questione, con una dimensione tale di cui non credo potranno giovarsi altre iniziative messe in campo per le celebrazioni sigismondee.
Da venti anni seguo un percorso di conoscenza – di vita e di filosofia, perché quest’ultima non è altro che arte della vita come ci ha insegnato Pierre Hadot nel suo Esercizi spirituali e filosofia antica – nel quale il rispetto di sé e degli altri è fondamentale, nel quale la libertà di coscienza e di pensiero, di espressione e di comunicazione, il rifiuto di ogni dogmatismo e settarismo sono centrali e servono da faro di orientamento. L’intolleranza, va da sé, va esclusivamente assegnata ai fascisti, ai fondamentalisti e ai settari.
La cultura – intesa come conoscenza ossia ciò che educa la mente e la coscienza – è cultura, a prescindere dalle follie (a volte anche ideologiche) o bizzarrie (più innocenti) che sostiene. Non mi sono mai piaciute le censure. Non ci sono idee che non si possano studiare, discutere e criticare e si può dare pari dignità a tutte le forme culturali, magari anche per smontarle, senza fermarsi alla cultura omologata. Siamo nati originali e sarebbe meglio non vivere come fotocopie altrui. Da sempre il pensiero filosofico – che ama la sapienza – trae la propria forza dalla capacità di integrare una pluralità di forme e attività di pensiero, senza chiudersi nelle mura di un pensiero unico, ma spalancando le porte della propria mente e scardinando molti dei riflessi ben condizionati che ci fanno guardare le cose in modo convenzionale e abitudinario, immobile e ottuso.
Spesso sotto il nome di cultura si maschera la cattiva erudizione e la pedanteria, che spesso sono litigiose, competitive, altezzose, separative, sospinte da un senso di superiorità esclusivo e da una pretenziosa arroganza che vuol far pesare il proprio potere. Occorre, invece, un duro lavoro di disciplina che insegni a controllare le proprie reazioni e a non essere schiavi di esse, a essere umile e disponibile, a mettere tutto in discussione, ad ascoltare con serenità anche ciò che indigna e urta e persino ciò che si trova stupido.
Un buon esempio del discorso qui premesso può essere un’esternazione di Benedetto Croce. Nel 1946 era infastidito da coloro che hanno «fame di allegorie e di ritrovamenti del significato», deridendoli come «spiriti bizzarri e vanesi che par che immaginino che, oltre la storia visibile, ce ne sia un’altra invisibile, la quale ad essi è o sarà concesso svelare con lo stabilire sottili confronti, da loro immaginati, tra i fatti: sicché i loro racconti storici prendono aria di scoperte di cospirazioni e di intrighi ed essi di abilissimi investigatori o piuttosto poliziotti». Croce stava parlando di qualche Magnani degli anni Quaranta? Purtroppo no, stava parlando di Aby Warburg e degli esponenti della cosiddetta «scuola iconologica» che facevano riferimento all’Istituto Warburg.
Ora è indubbio che i maggiori guadagni ottenuti nel campo dell’interpretazione dell’arte rinascimentale (compreso il Tempio malatestiano, grazie a Charles Mitchell del Warburg Institute) siano stati resi possibili da Warburg e da altri della sua scuola come Edgar Wind, Erwin Panofsky, Rudolf Wittkower, Ernst Gombrich, F.A. Yates, solo per fare un mannello di nomi.
Con questo non voglio paragonare Riccardo Magnani, che non conosco e di cui non ho letto il libro, a questi giganti. Segnalo unicamente che se persino Croce si è sbagliato, figuriamoci cosa può accadere a noi spigolatori che raccogliamo solo gli avanzi dei grandi mietitori che ci hanno preceduto.
Di primo acchito anche a me la teoria della mappa dell’America sembra stravagante, né sono in grado di dire se sia un caso di «decodifica aberrante», come Umberto Eco o Paolo Fabbri ci hanno spiegato, essendo lo sfondo dell’affresco un «testo chiuso» e quindi aperto a qualsiasi interpretazione. Sono invece più sicuro, platonicamente, che, nel caso in esame, siamo destinati a restare nel grado più basso della conoscenza: l’eikasía (la congettura, l’apparenza) cui segue la pistis (la credenza), entrambi appartenenti alla doxa (l’opinione) e che non ci sarà possibile uscire dalla sfera dell’opinione (sempre mutevole e, come dice la parola stessa, opinabile) per ascendere a quello dell’epistéme (la scienza, la conoscenza).

Provo anche a immaginare che la tesi di Riccardo Magnani, se indovino il genere di libro che la sostiene, sia mescolata a molte verità e che certe informazioni che possiede ed espone abbiano fatto particolarmente irritare i nostri principi della promozione culturale sigismondea, presumo infastiditi da chi mostra di saperla più lunga di loro. Magnani butta là con sprezzatura l’immagine (moderna) di Pletone nella medaglia della Libera Scuola di Filosofia “Plethon” di Magoula-Mistrà. L’immagine della medaglia (onorificenza che possiedo dal 2001) è tratta da un libro in neogreco di Sabba Spentzas (più volte edito: 1964, 1987, 1990 e 1996) sulle teorie economiche, finanziarie e sociali di Pletone.
Magnani cita spesso Pletone e il suo arrivo in Italia in occasione del Concilio dell’Unione di Ferrara-Firenze. Senza dubbio è vero che i Malatesta, come è stato detto con una battuta per contrastare la tesi di Magnani, che i Malatesta guardavano a Oriente. Ma questo, in una terra rotonda, diventa relativo: di qui il geniale progetto di Cristoforo Colombo di buscar el Levante por el Poniente (arrivare al Levante per la via di Ponente).
Tra le «prove documentali inossidabili» (cit. Delucca) ci sono, alla Marciana di Venezia, un estratto della Geografia di Strabone sulla forma dell’ecumene, ricopiato personalmente da Pletone, e un secondo testo, noto tra gli studiosi col titolo di Correzione di alcuni errori di Strabone, sempre di pugno di Pletone, con una scrittura ferma che non sembra essere quella di un ultra-ottuagenario. Fanno parte del lascito personale della biblioteca del cardinale Bessarione, già discepolo di Pletone e che continuò per tutta la vita a considerare come un maestro-iniziato e una sorta di reincarnazione di Platone. Il dono della sua biblioteca fu accompagnato da una lettera di Bessarione al doge Cristoforo Moro che in un mio libro, Pletone / Trattato delle virtù, ho riportato per intero. Nuccio Ordine, nel suo bestseller L’utilità dell’inutile (Bompiani, Milano 2013), ne ha voluto riportare, proprio parlando delle minacce che incombevano sul Warburg Institute, un estratto dell’incipit: «i libri sono pieni delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi, dei costumi, delle leggi, della religione. Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti ponendocele sotto gli occhi cose remotissime dalla nostra memoria. Tanto grande è il loro potere, la loro dignità, la loro maestà, e, infine, la loro santità che, se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi degli uomini, ne cancellerebbe anche la memoria».

Da questi testi autografi apprendiamo che Pletone sa che la terra è rotonda e che solo una piccola parte della sua superficie è stata esplorata, ci accorgiamo che usa fonti affidabili per le terrae cognitae e per quello che c’è oltre non ricorre a deserti e mostri di sapore medievale, ma, per libera congettura, apre varie possibilità di terre ignote e mari e, a un certo punto, quasi immagina un’America oltre l’Asia. Nelle pagine che ho dedicato a questo tema mi chiedevo, un po’ retoricamente, se l’influenza di Pletone fosse stata solo filosofica, avendo portato a Firenze il codice contenente tutti gli scritti di Platone che finì nella biblioteca di Cosimo de’ Medici e sul quale anni dopo Marsilio Ficino avrebbe condotto la sua traduzione. Non solo è ormai riconosciuto che le sue opere politiche influenzarono l’Utopia di Thomas More, ma si ritiene anche che Pletone a Firenze abbia presentato ai suoi nuovi amici umanisti anche l’opera di Strabone (che fino ad allora era stata ignota), cosa che condusse al rovesciamento delle teorie geografiche erronee di Tolemeo. Quest’opera di Strabone conteneva commenti alle teorie di geografi precedenti, come Eratostene o Posidonio, i quali postulavano che, navigando sempre verso occidente, si sarebbe potuti arrivare in India dopo aver percorso una distanza di 70.000 stadi. Nell’ambito di questa nuova concezione rinascimentale sulla configurazione della Terra, secondo le ricerche di molti studiosi allo stesso Pletone è attribuito un importante, anche se indiretto, ruolo nella scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo che, secondo la sua biografia scritta dal figlio, citava Strabone fra le sue autorità principali. Colombo ebbe il testo dal fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, che lo aveva ricevuto, con qualche probabilità, di prima mano, da Pletone, con il quale è molto probabile sia entrato in contatto durante la sua permanenza a Firenze. I contemporanei oggi non si rendono sufficientemente conto dell’effetto che poteva produrre la presenza di un greco in possesso di testi originali e antichi e per il quale il rapporto tra scienza e filosofia non poteva essere disgiunto. Grazie al maestro bizantino la mappa non solo del pensiero intellettuale, ma anche quella della geografia non sarebbero più state eguali a prima. È un lascito che non solo l’Occidente ma Rimini, che ospita le spoglie di Pletone, non può disconoscere. Basandosi su fatti circostanziali, c’è un dibattito tra gli studiosi, di cui ho dato conto nelle note provviste di ampia bibliografia, se le nuove concezioni straboniane furono portate a Firenze da Pletone nel 1439 o giunte dieci anni più tardi attraverso Ciriaco d’Ancona o, ancora, se sia più verosimile considerare lo stesso Bessarione il reale protagonista di questa trasmissione, ma il legame del nome di Giorgio Gemisto Pletone, diretto o indiretto, con un fatto di così grande importanza come la scoperta dell’America risulta, in ogni caso, fondamentale.

Infine Riccardo Magnani, sempre con la medesima nonchalance, lascia cadere che il san Sigismondo re di Burgundia / Sigismondo di Lussemburgo, nell’affresco di Piero, è in realtà Pletone.
Immaginiamo allora che, domani, un austriaco di nome Walter Seitter si presenti da Pulini per sostenere questa tesi: che Piero della Francesca ha ritratto sì i due Sigismondi, ma anche Gemisto Pletone. Pulini farà muro, Giovanardi dirà che vede draghi in cielo, Delucca che la tesi gli giunge nuova oltre che strana, dato che nei suoi cinquant’anni di ricerche archivistiche, non ha mai trovato un solo documento che potesse convalidare questa tesi e Rimondini, perentoriamente, che è una bufala.
È solo una ipotesi. Il problema è che Walter Seitter, che sostiene questa tesi e che, tra l’altro, da anni è in polemica con Silvia Ronchey e con me per le nostre identificazioni di Pletone in Benozzo Gozzoli e in Cristofano dell’Altissimo, è uno studioso di filosofia di fama internazionale, autore con Wilhelm Blum di un importante libro su Pletone in lingua tedesca, e relatore in convegni internazionali.
Ecco, bisogna avere prudenza. Perché la vera sapienza sa di non saper nulla.
E adesso concludo. Parto, con una carovana di amiche e amici, per Novafeltria ad ascoltare Riccardo Magnani. Un po’ per allegria, un po’ per conoscenza.

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