L’associazione Tebaldi bussa al teatro Galli ma Pulini non apre

L’associazione Tebaldi bussa al teatro Galli ma Pulini non apre

Rimini città d’arte ha chiesto più di una volta per iscritto e verbalmente all’assessore alla cultura Pulini di poter visitare il cantiere del teatro ma... Dopo Cervellati e Chicchi, diamo la parola a Giovagnoli e Rimondini. Il presidente dell'associazione Tebaldi spiega l'avversione per il progetto Natalini, dice che l’uso eccessivo del cemento armato ha brutalizzato l’intervento di recupero ma per quanto riguarda l’acustica della sala non tutto è perduto. Purché l'amministrazione comunale si affidi a veri esperti. Mentre il prof. Rimondini illumina il Gnassi style all'opera nella Rimini romana.

Tace l’amministrazione comunale davanti alle bordate arrivate dall’architetto Pierluigi Cervellati e dall’ex sindaco Giuseppe Chicchi. Che hanno fatto appassire il fiore all’occhiello del sindaco Andrea Gnassi: il teatro Galli come non era, un ibrido – secondo la definizione di Chicchi – che sta prendendo forma sotto gli occhi dei riminesi, che non piace a chi avrebbe voluto un teatro sul modello filologico e nemmeno a chi avrebbe preferito qualcosa di moderno e funzionale.
Ora diamo la parola a due persone che a Rimini si battono da tempo per il teatro com’era dov’era: Attilio Giovagnoli, presidente dell’associazione Rimini Città d’Arte “Renata Tebaldi”, e il prof. Giovanni Rimondini.

Giovagnoli, Giuseppe Chicchi dice che una volta compiuta la scelta filologica gli esiti non avrebbero potuto che essere questi, ovvero un ibrido fra un teatro storico e uno moderno. Perché la vostra associazione ha avversato il progetto Natalini?
Ci occupiamo del teatro Amintore Galli, anzi del Teatro Vittorio Emanuele II, o Poletti, come era chiamato dai riminesi, prima di Chicchi e di Natalini. Le ragioni sono ideali e mirano a sostenere la chiara volontà popolare della cittadinanza riminese. Il volere della maggioranza dei cittadini, infatti, è stato sempre quello di ripristinare il teatro come era prima dei danni della guerra. Per ragioni simboliche e di tradizione cittadina. Così è stato per La Scala, così è accaduto poi per La Fenice e per il Petruzzelli. Questa volontà è stata espressa più volte a partire dal 1983 quando il Comitato civico, presieduto dall’avvocato Pietro Spadaro, raccolse 10.000 firme per la ricostruzione del teatro come era. Il 17 dicembre di quell’anno si tenne, presso la sala Ressi, un’affollatissima conferenza pubblica con l’intervento del soprintendente Andrea Emiliani, dell’architetto Pier Luigi Cervellati, del critico musicale del Resto del Carlino Adriano Cavicchi, che caldeggiarono con forza il recupero del teatro storico. Emiliani richiamò il motto “dov’era e com’era” che D’Annunzio aveva usato nel 1902 quando era crollato il campanile di San Marco a Venezia e si voleva costruirlo diversamente e in altro luogo. In una regione, l’Emilia Romagna, dove fin dagli anni Settanta, l’Istituto per i Beni Culturali aveva promosso il censimento e il recupero di tutti i teatri storici, e Cervellati restaurava egregiamente fra gli altri, i teatri di Lugo e di Busseto.
Viceversa, la nomenclatura riminese di allora si espresse in modo contrario a cominciare da Pier Giorgio Pasini, Giorgio Conti e altri. Fra questi ci fu chi si appellò alla lotta di classe, con motivazioni pseudo staliniste (le stesse usate oggi dal vecchio sindaco Chicchi) definendo il teatro aristocratico e borghese, chi disprezzò l’opera del Poletti, chi criticò la scelta ottocentesca della collocazione del teatro, chi paventò esecuzioni dell’Aida “con gli elefanti”. Dopo il convegno si aprì un acceso dibattito sulla stampa.
Scongiurammo il sindaco Conti di procedere al ripristino del teatro sulla base del dettagliato progetto conservato presso la biblioteca Poletti di Modena, che avrebbe permesso un restauro modello in tempi brevi, invano. Se fossimo stati ascoltati il teatro si sarebbe riaperto da almeno vent’anni. Per il ripristino filologico del teatro, contro l’idea del concorso, intervenne, inascoltato, con un articolo, Federico Zeri (La Stampa 23 marzo 1985).
Invece, malauguratamente, Conti bandì il “Concorso nazionale di idee per la progettazione del teatro Amintore Galli e dell’assetto di piazza Malatesta a Rimini”.
Il bando, redatto con estrema superficialità, premetteva però il rispetto delle leggi e dei vincoli vigenti anche se non si curava di nominare i vincoli di protezione esistenti nell’area a forte valenza archeologica che comprende Castel Sismondo e il sito e i resti dell’antica cattedrale di Santa Colomba. Fra i partecipanti chi li rispetta è scartato.
Decidemmo di partecipare ugualmente coinvolgendo il prof. Cervellati che presentò il progetto di ripristino filologico sulla base dei disegni e progetti di Luigi Poletti. La giuria scelse il piano Natalini. Un progetto costosissimo e devastante che si sovrapponeva alle strutture interrate del castello, che sviliva ulteriormente sovrastandolo con una gigantesca torre scenica. Per il teatro “dov’era, com’era” costituimmo nel 1997 Rimini città d’arte. La Tebaldi ci diede il suo appoggio, così come Abbado, Muti, Pollini, Andrea e Vittorio Emiliani, Zeri, Sgarbi, ecc. raccogliemmo in poche settimane 6mila firme fra i cittadini.
Natalini e soci avevano redatto, nel giro di 15 anni, una serie di otto progetti, i primi sette bocciati dalle soprintendenze, furono ricompensati largamente dalle amministrazioni dei sindaci Moretti, Chicchi, Ravaioli. Per un totale di 7 miliardi di lire compresa la buonuscita finale.
Ecco perché ci siamo opposti ai progetti Natalini.

Come valuta il teatro che sta sorgendo? Quali sono le principali incongruenze rispetto al progetto filologico, a partire dal tema dell’acustica?
Abbiamo cercato inutilmente di sventare la costruzione sotto il palcoscenico di due piani interrati che hanno tolto di mezzo i resti di una domus romana. L’uso eccessivo del cemento armato ha brutalizzato l’intervento di recupero. Tuttavia l’acustica della sala potrebbe risultare accettabile se fosse rispettato perlomeno quanto previsto nel piano esecutivo dove si parla del soffitto della sala sospeso alle capriate e dei materiali quali il legno per il pavimento della platea, le balaustre dei palchi del 2° e del 3° ordine, il gesso e gli stucchi per il rivestimento delle colonne e delle pareti della cavea. Certo, la guida di un supervisore e autore del progetto di ripristino come Cervellati, anche solo per la sala, avrebbe garantito gli esiti estetici e acustici, che rimangono la grande incognita.

Uno dei paradossi di questa vicenda è che, pur con spinte contrarie venute dalle amministrazioni comunali alla scelta filologica, una volta che è stata imboccata questa strada – grazie soprattutto alla vostra mobilitazione e al “cordone umano” che abbracciò il Galli nel 2000 – sia Cervellati che voi dell’associazione Rimini Città d’Arte siete stati “accantonati”, nessuno vi ha più coinvolto. Perché a suo parere è avvenuto questo?
Dopo la denuncia alla stampa del 2009, che ha sventato l’incredibile, arbitraria manomissione della sala a palchi polettiana, prevista nel piano redatto dai tecnici comunali, e li ha costretti ad adottare nell’esecutivo, almeno per la sala, il progetto filologico Garzillo – Cervellati, Rimini città d’arte è invisa ai funzionari comunali.
Nonostante le assicurazioni del sindaco Ravaioli, della Soprintendenza Regionale e del presidente del Comitato di settore del ministero, la possibile consulenza del prof. Cervellati non è stata considerata.

E’ vero che l’associazione “Rimini Città d’Arte” ha più volte chiesto all’assessore Pulini di poter accedere al Galli, per sincerarsi dei lavori in corso, e non le è stato non solo consentito ma nemmeno risposto?
Rimini città d’arte ha chiesto più di una volta per iscritto e verbalmente all’assessore alla cultura Pulini di poter visitare il cantiere del teatro; l’assessore ha sempre procrastinato la visita.

Andrea Gnassi ha portato i giornalisti sul cantiere del Galli; non pensa che si dovrebbe chiedere al primo cittadino di far entrare anche gli esperti, per vedere cosa stanno facendo all’interno prima che diventi troppo tardi (ammesso che non sia già troppo tardi)?
Se fosse veramente una visita mirata al bene del teatro e non alla propaganda politica potrebbe essere una buona idea.

Giardinetti, teatrini, piattaforme: il Gnassi style e la Rimini romana

Il punto di vista del prof. Giovanni Rimondini

“Se si scavasse il fossato recupereremmo un terzo dell’unica sua opera ossidionale rimasta dell’architetto fiorentino. Ma riaprire il fossato non è un’operazione indolore. Cambierebbe con quel gran buco l’immagine familiare che abbiamo di Rimini. Un gran buco in città”. Il prof. Rimondini la pensa così, e aggiunge: “Non sarebbe certo come nel ‘400, quando i Riminesi avranno guardato con terrore alla enorme fossa che si apriva. Ma anche noi oggi rimuoviamo volentieri che la nostra è una civiltà della guerra e quell’enorme vuoto ci costringerebbe a ricordarlo ogni giorno. Insomma chi non vuole riaprire il fossato ha le sue ragioni. Ma quello che ci vedremmo dentro al gran fosso forse farebbe dileguare la paura. Vedremmo le torri-piramidi di Valturio, il corpo centrale con maggior respiro, il catino irregolare dell’antemurale, ma compreso in un cerchio o quadrato, quello che resta del ponte morto, delle piccole torri, delle mura che cingono la falsabraga o la lizza, la piazza aderente al castello. Un edificio unico al mondo. Una Rimini nuovissima e di gran prestigio. Il giardinetto, il teatrino, gli stemmi sbagliati, il buco nel didietro del teatro e anche il ventilato progetto Fellini…che contano?”
Se si chiede a Rimondini un giudizio più generale sulla politica culturale dell’amministrazione comunale, la sua risposta è la seguente: “E’ legittimo che Gnassi faccia della politica culturale per assicurarsi dei voti, quello che è inquietante è che i suoi progetti vengano affidati ad esecutori che non conoscono la storia di Rimini. Non sanno cos’è un capitello corinzio… né com’è fatto uno stemma malatestiano, e nemmeno conoscono la grande storia romana di Rimini. Prendono quello che gli capita da internet, che è una gran discarica di rifiuti, con molte pepite d’oro. Nelle rappresentazioni antiche di Ariminum continuano a rappresentare il ponte di Augusto e Tiberio com’è oggi. E basterebbe ragionarci un momento: possibile che i Romani costruissero un ponte a partire dagli archi? Non c’erano anche dei piloni? E non c’erano anche due rampe?” E a proposito dei progetti che interessano il ponte di Tiberio aggiunge: “Tutti i progetti sul ponte romano sono inutili se non si capiranno bene prima le cause storiche e geologiche della subsidenza, dell’acqua che ha preso il posto della ghiaia, i percorsi sotterranei del fiume sotto la città. Ma anche qui giardinetti, piattaforme, teatrini, biciclette, cribbiatine…”
L’anfiteatro romano resta una delle ferite più profonde inferte alla archeologia di Rimini, ma gli appelli a trasferire altrove il Ceis e a valorizzare quel bene sono ad oggi caduti nel vuoto. “Il messaggio indiretto che si sta mandando a generazioni di bambini del Ceis è che la legge che protegge un monumento archeologico non vale niente. Evidentemente per quelli del Ceis archeologia e storia non valgono niente”, dice Rimondini.

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